Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  giugno 03 Lunedì calendario

Julio Velasco si racconta in una lunga intervista

Ci ha fatto sentire speciali e questo è quasi imperdonabile. Julio Velasco diventa allenatore dell’Italia del volley nel 1989: l’anno prima la Nazionale era andata alle Olimpiadi di Seul grazie al boicottaggio di Cuba, da ripescata. Con lui vince subito l’Europeo, nel 1990 il Mondiale, e poi tanto altro ancora. La squadra di Tofoli, Gardini, Lucchetta, Cantagalli, Zorzi e Bernardi diventa la squadra di tutti. Generazione di fenomeni, un modello, un ricordo felice. Velasco ha acceso una luce, facendo sentire migliore uno sport che, anche senza di lui, ha continuato ad avere successo. Negli ultimi 30 anni la pallavolo maschile, dove contava, ha vinto 19 medaglie d’oro più 3 argenti olimpici e un bronzo, nei 30 anni precedenti appena un bronzo olimpico (e volendo un secondo posto mondiale). Velasco ci ha messo il metodo, la capacità di godere di quello che avevamo, il dono della sintesi. Racconta Andrea Zorzi: «La prima volta che ci siamo visti mi ha chiesto cosa mi serviva per diventare uno dei migliori attaccanti del mondo. Io ho cominciato a parlare di maggiore allenamento e concentrazione, di muri e battute. Lui mi ha detto: sei uno schiacciatore? Impegnati per schiacciare meglio». Il proprio ruolo, il proprio compito, le priorità. Dopo più di 40 anni da allenatore di mondo - dai club alle nazionali, compreso l’Iran con due campionati d’Asia, dai maschi alle femmine, un passaggio nel calcio da dirigente e poi ancora panchina si ritira dal campo. Farà altro, magari restando nello sport, ma non allenerà più una squadra. L’ultima è stata Modena: se c’è un destino è anche quello di finire dove tutto è cominciato.
Quando ha deciso di smettere?
«Pensavo di andare avanti ancora per un anno, poi ho deciso di anticipare l’addio. Allenare un club ti mangia la vita, fai fatica a fare altro. Io non sono multitasking, volevo godermi i nipoti, scrivere, studiare. Forse l’età mi ha dato anche il gusto di fermarmi, di stare a bordo piscina, senza partire sempre per un altro viaggio».
La cosa più bella dei suoi anni in panchina?
«Il rapporto con i giocatori. Lavorare con i giovani è un privilegio: hanno energia, allegria, spensieratezza, e sono spugne, hanno voglia di imparare. Mi mancherà».
Si sente vecchio?
«Ho 67 anni e faccio fatica ad associarmi a quella parola...forse dovremmo inventarne altre, la vita raddoppia le sue stagioni, anche per l’adolescenza che ora dura dai 15 ai 25 anni. Il fascino del lavoro è la creatività, il poter pensare cose nuove. La giovinezza, a prescindere dall’età, è continuare a risolvere i problemi».
Allenare è un lavoro?
«Un signore che faceva il tuttofare per la Panini un giorno mi ha chiesto: ma lei lavorare lavorare, ha mai lavorato? Perché, giustamente, il lavoro per lui era quello manuale. Ho pensato: ecco mi ha beccato. E gli ho detto: ho fatto le pulizie da giovane, per sei mesi, dalle 6 di mattina alle 10. Per fortuna ho potuto smettere. Ma lì ho capito la differenza dei punti di vista, tra te che pulisci e quelli che entrano dalla porta. C’è chi usa la maniglia e chi spinge il vetro lasciando l’impronta e costringendoti a pulire di nuovo. Prima non ci avevo mai fatto caso. Tutta la vita è cercare di capire i punti vista diversi».
Come si diventa allenatori?
«Allenare non è una scienza, è un’arte. Ci sono contenuti scientifici, ma è un’arte. La parola chiave è equilibrio: tra autorità e comprensione, per esempio. Non trovi mai un punto giusto, è una ricerca continua, devi essere motivato. Sei un po’ come un attore comico, quando si apre il palcoscenico devi far ridere, qualunque cosa ti sia capitata prima. Tu crei emozioni, non trasmetti solo nozioni: e questo va allenato, perché c’è anche un’intelligenza emotiva. Se sei pessimista fare l’allenatore è quasi impossibile. L’ottimismo serve. Il che non significa pensare che se facciamo tutto benissimo vinciamo di sicuro: c’è anche l’altra squadra, non basta fare le cose bene, dobbiamo farle meglio degli altri.
Poi, in ogni grande risultato, c’è sempre un po’ di mistero...».
La partita della vita?
«La semifinale mondiale del 1990 vinta con il Brasile. Ma io cancello queste cose dalla mia memoria perché così è più veloce. I ricordi li lascio nel computer».
Una delle frasi di allora: "Bisogna avere gli occhi della tigre". Poi attribuita direttamente a lei.
«Era di Rocky...comunque ho smesso di usarla. Preferisco dire che la verità si vede dagli occhi e non dagli urli».
Una volta i ragazzi erano meno fragili?
«Quando diciamo "noi eravamo meglio" è solo un modo per dire che rimpiangiamo quegli anni perché eravamo giovani. Ma il mondo non era più bello: c’erano più poveri, meno persone istruite, la nostra contestazione nasceva anche dal fatto che quel tempo non ci piaceva. Da ragazzo vedevo i film di Bergman: quel che notavo io non erano i dilemmi esistenziali, ma che a 18 anni il protagonista faceva colazione con i genitori di lei. Quei ragazzi avevano dormito insieme, cosa che mia madre non mi permetteva».
Cosa c’è di diverso nei giovani di oggi?
«Ci sono più problemi di insicurezza. Che nascono dal rapporto con gli errori. L’errore non è un segno di incapacità ma fa parte del processo di apprendimento. Oggi gli adulti vogliono evitare le frustrazioni ai ragazzi e intervengono subito. Ma non dobbiamo proteggerli. Se uno sbaglia non è che non vale o è una schifezza, ha solo sbagliato. Non posso non dirglielo perché ho paura che ci rimanga male».
Vale per i genitori, soprattutto.
«Quando da piccolo ti alleni sulla trave, nella ginnastica artistica, ti fanno fare la ruota e mettono dei cuscini di gomma piuma a livello del legno. Se cadi non ti fai male. Ma arriva un momento in cui i cuscini vengono tolti. Dobbiamo allenarci per i momenti in cui non ci saranno i cuscini. Non possiamo evitare il dolore ai nostri ragazzi. Insegniamogli a sopportarlo».
Altrimenti?
«Crescono con pochi anticorpi alla loro frustrazione. Se dicono che il professore ce l’ha con loro non siamo noi adulti a dover stabilire se è vero, piuttosto dobbiamo fargli capire che bisogna imparare ad avere a che fare anche con chi ce l’ha con te. Altrimenti succede che il nostro ragazzo non sbaglia mai e la colpa è sempre di qualcun altro. Se vogliamo proteggerli dandogli ragione e dicendogli ci penso io, il sottotesto è che non pensiamo davvero che possano cavarsela. Dare fiducia, anche per la loro autostima, vuol dire: risolvitela da solo, so che puoi farlo. Essere coraggiosi non significa non avere paura ma saperci convivere, saperla accettare. Anche questa ansia di condividere tutto non è giusta, perché è come con i giocatori, non siamo la stessa cosa».
Lo sport è troppo competitivo?
«Non è mica un modello sociale. Oltre il divertimento, il valore dello sport sta anche nella possibilità di orientare l’aggressività e la competizione attraverso le regole. L’essere umano è aggressivo (per altro è anche solidale) e nello sport non c’è bisogno di odiare, basta voler vincere. La competizione non è per forza un male: quando i bambini fanno le squadre tra di loro, sbagliano molto meno dei dirigenti di Serie A nel scegliere i compagni. Scelgono i più forti, non i loro amici. Per vincere. La squadra non è un imperativo etico, rispetta le ambizioni individuali, non le annulla, ma lo sport insegna le regole. Per questo è sbagliato togliere i voti, sarebbe come dire che alla fine della partita non si sa chi vince per non frustrare troppo i ragazzi».
Come è cambiata la "cultura degli alibi", quella che dando sempre la colpa a qualcun altro, ti consente di non cambiare mai. "Voglio schiacciatori che schiacciano bene palle alzate male, che non discutono le alzate ma le risolvono". Diceva così nel 1989.
«La cultura degli alibi sta nell’evocare un motivo che non dipende da noi, un fattore quasi atavico o genetico, per giustificare le cose che non riusciamo a cambiare. L’alibi di oggi è quando diciamo: i giovani del 2000 vogliono tutto e subito. Ma è sempre stato così, sta a noi adulti non darglielo...sta a noi adulti cominciare a dire dei no. Ovviamente non si possono obbligare le persone a fare gli straordinari al lavoro dicendogli che devono trovare il tempo e che non devono crearsi alibi: questo diventa sfruttamento».
Ha dei rimpianti?
«Ho sbagliato, ho commesso errori, ma il lavoro è fatto anche di queste cose. Il rimpianto vero è non aver passato più tempo con mia madre».
I ricordi materiali di questi 40 anni.
«Stanno in tre scatole, molte foto che adesso metterò in ordine».
Ne appenderà?
«Mi piace avere le immagini degli altri alle pareti, non le mie. Ho le medaglie, quelle sì. Ma se guardi troppo il tuo passato non vedi il presente. Non puoi diventare schiavo del libro che hai scritto, anche se ha avuto successo».
La prima panchina in A?
«Tra il 1978 e il 1979 allenavo i bambini e mi divertivo. A metà stagione mi hanno chiesto di passare con i grandi, io non volevo, ma loro non avevano nessun altro. Per propormelo mi hanno portato a cena fuori, facendomi sentire importante».
Pensava di diventare l’allenatore della squadra del secolo?
«Quando sono arrivato a Jesi pensavo che sarebbe stato bello arrivare in Serie A. Ho ricevuto tanto e devo ringraziare i giocatori che ho avuto. Non direi di essere stato uno dei tecnici più grandi ma posso dire di essere uno dei più aggiornati. Ho sempre cercato di rubare qualcosa. Dai libri, dai film, dagli altri sport. Abbiamo costruito uno staff, dalla statistica alla fisioterapia, negli anni Ottanta, copiando dall’estero. Sono andato in Iran e ho preparato dei cartelli in inglese e in lingua farsi con parole chiave per insegnare ai ragazzi le priorità del bagher. Ho cominciato a scrivermi gli allenamenti e poi ho deciso di appendere due pagine negli spogliatoi per farli leggere ai giocatori, come fanno gli americani. Sono un ladro di idee».
L’adrenalina della panchina.
Come si fa senza?
«Non so se mi mancherà, se sarà insostituibile come il caffè. Nel caso mi dovrò abituare al tè».
Ha rivisto il video del mondiale 2018 quando l’Argentina batte la Polonia e lei fa un giro di campo esultando con il gesto dell’ombrello?
«L’ho rivisto una volta e lo rivendico. Ho sempre rispettato tutti ma sono esploso. Non sono buddista».
La cosa più divertente che le hanno detto?
«Sei stato fortunato con questo addio, hai potuto assistere al tuo funerale da vivo».