la Repubblica, 3 giugno 2019
Si votano i leader, non i partiti
Il successo della Lega alle elezioni Europee di una settimana fa è, anzitutto, una vittoria di Matteo Salvini. In primo luogo, su Luigi Di Maio. Perché i partiti sono ormai identificati con i loro leader. D’altronde, da circa 20 anni si parla di “partito personale”. Una definizione coniata (da Mauro Calise) per spiegare l’evoluzione dei sistemi e dei partiti, accelerata da Berlusconi e da Forza Italia. Più che un passaggio: una svolta. Dalla personalizzazione all’identificazione diretta dei partiti e della politica con i leader. Certo, anche prima dell’avvento della televisione e dei media i partiti di massa esprimevano leader importanti. Da De Gasperi a Togliatti, da Berlinguer ad Andreotti. Fino a Craxi e La Malfa. Tuttavia, il consenso si formava “attraverso i partiti”. Berlusconi rovescia questa prospettiva. Perché forma un “partito personale”. Che dipende dai suoi “canali”. Letteralmente. Tanto che il declino di Forza Italia, negli ultimi anni, coincide con il declino del suo leader – e proprietario. D’altronde, lo spazio dell’organizzazione e delle ideologie è stato occupato dalle persone e dal marketing. Così abbiamo assistito al succedersi di partiti ai quali i leader offrono volto, linguaggio, identità. Dopo FI, riflesso di Berlusconi, si afferma il Pd di Matteo Renzi. Il PdR. Mentre altri leader hanno ri-prodotto “a loro immagine” il partito. Puntualmente declinato insieme a loro. Come l’IdV, il partito di Antonio Di Pietro. In seguito, Scelta Civica. PdM: il Partito di Monti.
Oggi, Emma Bonino, ha “personalizzato” un soggetto che evoca un’identità “radicalmente europea”. E, quindi, stressata dalle tensioni euro- scettiche. Come “Siamo Europei”. Il Partito di Calenda. (Meglio non sintetizzarlo come PdC. Sigla che evoca esperienze politiche molto lontane dal suo pensiero). In questo modo, gli elettori si sono abituati a ri(con)durre i partiti ai leader. E a tradurre la competizione politica ed elettorale in un confronto fra leader. Tanto più negli ultimi anni. Visto che, ormai, il voto si è “personalizzato” e “presidenzializzato”, a ogni livello. Dai Comuni alle Regioni. E gli stessi partiti, le stesse coalizioni, associano le loro sigle al candidato Premier – e Presidente. Peraltro, al tempo del digitale, gli elettori sono chiamati a “simulare” la democrazia diretta, scegliendo “direttamente” in rete, i candidati, oltre al leader – di partito. O a confermarlo, con un plebiscito “personale” (come ha fatto il M5s…).
Così, negli ultimi anni una percentuale crescente di elettori afferma di votare soprattutto e anzitutto per il leader, piuttosto che per il partito. Un anno fa, in occasione delle elezioni politiche del 2018 (sondaggio Demos-LaPolis), l’importanza del leader prevaleva su quella del partito nella scelta di voto del 28% degli elettori. Un anno dopo, alla vigilia delle recenti elezioni Europee, questa tendenza è aumentata ancora. Per quasi 4 persone su 10, fra gli elettori dei principali partiti, infatti, le elezioni costituiscono “la scelta del capo”.
Questa tendenza è ormai diffusa in ogni tipo di consultazione. Infatti, quando si vota per il Parlamento “nazionale” e, ancor più, per i sindaci e gli amministratori locali, la figura dei candidati è (ri)conosciuta. “Mediata” dalle relazioni e dal contesto locale. Mentre alle elezioni europee, come in questa occasione, il leader viene prima del “partito”. Così, non c’è stata “partita”. Perché, fra gli elettori della Lega, 7 su 10 hanno votato, anzitutto, per scegliere Salvini. Prima del partito. Mentre solo il 17% degli elettori Pd afferma di aver votato per fiducia “personale” verso Zingaretti. È significativo come il “declino del Capo” abbia contagiato FI. E ciò ne spiega il crollo elettorale. Ma, in particolare, è evidente come la disillusione – per non dire delusione – verso il leader abbia “travolto” soprattutto il M5s. Solo il 15% dei suoi elettori, infatti, sostiene di aver espresso un voto “personale”. A favore di Di Maio. Mentre i Fratelli d’Italia e perfino + Europa beneficiano di un sostegno al leader più elevato.
Così, il successo della Lega appare, soprattutto, un successo “personale” di Salvini. A conferma della sua “popolarità”, in tempi di “popolocrazia”. Quando l’evocazione dei nemici, la paura degli altri, l’inquietudine verso le istituzioni “globali” ed europee, hanno bisogno di Capi, capaci di personalizzare questi sentimenti.
L’esperienza italiana – e non solo – degli ultimi vent’anni suggerisce, peraltro, che l’attrazione verso un Capo sia instabile. Soprattutto se si fonda sui (ri)sentimenti. Perché individuare “paure” e nemici sempre diversi. Sempre nuovi. Stanca. Sempre più in fretta.
Tuttavia, la “personalizzazione” appare una tendenza diffusa. Dai cambiamenti avvenuti nella società e nella comunicazione. In grado di riprodursi in contesti istituzionali diversi. Nei sistemi maggioritari, ma anche proporzionali. Meglio prepararsi. Sfidare la Lega significa sfidare Salvini. È un’alternativa “personale” oltre che “politica”.