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 2019  giugno 03 Lunedì calendario

Le donne non votano Pd. Ira delle compagne

Solo una donna su dieci ha votato Partito democratico per il Parlamento Europeo, mentre Lega e Movimento Cinque Stelle sono gli unici che hanno eletto più donne che uomini. E non ce ne saremmo neanche accorti, se alcune donne del Pd non si fossero messe a rognare nella loro bacata convinzione di dover essere corporazione, categoria, quota, donne in quanto donne. È stata La Stampa, in una sua rubrica titolata «Il calendario delle donne», a dare notizia dell’analisi realizzata da You Trend sul voto delle italiane: ne scaturisce che il Pd ha fatto eleggere 12 uomini e 7 donne, quasi la metà, mentre sette italiane su 10 si sono astenute o hanno votato Lega; quest’ultima ha eletto 15 donne e 14 uomini, i Cinque Stelle 8 donne e 6 uomini. E attenzione, il sistema elettorale per le Europee è un proporzionale vecchia maniera, con tanto di preferenze, quindi non si può neanche incolpare una maschia casta dei nominati o dei listini fallocrati: sono proprio gli elettori – termine neutro – ad aver deciso di votare o non votare tizia e caia. E attenzione, ancora: per la prima volta si votava con un meccanismo che garantiva la «parità di genere» (espressione che merita le virgolette a vita) e il risultato è che il partito di Salvini, nonostante la presenza anche di soggetti pochissimo femministi, è riuscito a garantire una parità numerica più di altre forze che ammiccavano specificamente al femminismo progressista. Sono dati. Il risultato, ora, è una prevedibile cagnara progressista, con varie piddine che perpetuano l’errore storico di considerarsi anzitutto «donne» prima che politici o esseri umani asessuati, quindi meritevoli o meno di un voto. L’elezione di caia, o la sua trombatura, è sempre l’indice della maturità civile di un Paese o di un partito: non è mai l’indice del fatto che caia sia stata recepita come immeritevole o invotabile o cretina. Non viene mai in mente che una donna la quale sia ritenuta una brava politica, in potenza, se non riesce a fare politica come meriterebbe, è perché forse tanto brava non è: che poi è lo stesso discorso che si fa per gli uomini. 

«ASSEGNAZIONE»
La candidata trombata Francesca Puglisi, per esempio, è una specialista nell’incolpare la questione sessuale in caso di sconfitta: lo fece anche alle scorse politiche. Aveva dato vita a «Twanda», una rete di donne interne al partito (immaginate se qualcuno facesse una rete di soli uomini) per poi ritrovarsi tre maschi candidati alle primarie, un segretario maschio e un presidente maschio. E ora una maggioranza di uomini eletti alle Europee. Lei era candidata, e ha preso 11mila voti, ma non sono bastati: eppure sono stati voti dati dalla gente, qual è allora il complotto? «I maschi si pianificano le carriere a tavolino e lasciano alle donne il compito di eliminarsi a vicenda, questo accade perché non riusciamo a fare gioco di squadra… hanno vinto gli uomini messi in posizione blindata o le donne che sono state perennemente in televisione». Divertente questa idea che gli uomini non cerchino di eliminarsi a vicenda, e tra loro si vogliano tutti bene. La soluzione, comunque, secondo la Puglisi o le puglisi, è sempre quella: l’assegnazione di ruoli importanti. La parola è proprio «assegnazione», che implica delle nomine rigorosamente non elettive per valorizzare il «genere». E perché assegnare proprio a lei, o a una donna, un ruolo importante? Perché è una donna, in quest’ottica. Punto.

RUOLI
Un risultato che lascia intendere che determinate assegnazioni a donne di ruoli importanti, in altri partiti, siano state fatte con lo stesso criterio: perché erano donne, non perché meritevoli più di altri uomini e più di altre donne. La Puglisi – che stiamo prendendo ad archetipo – si è messa poi a rielencare una serie di auspicabili provvedimenti pro-donne (congedi parentali retribuiti, parità di salari, tutela delle madri) dimenticando o non sapendo che i temi più importanti per chi ha votato, sempre secondo You Trend, sono restati comunque la sicurezza, l’immigrazione e il lavoro, temi che a quanto pare – dai dati – hanno attratto l’attenzione di entrambi i sessi in maniera abbastanza omogenea. Quindi il problema è a monte, diciamo.

LE QUOTE
Un’altra candidata progressista non eletta, Mila Spicola, ha spiegato invece che «i gangli del potere sono maschili, se il leader è femminista, le donne possono anche ottenere dei ruoli, ma se il leader è poco sensibile alla parità non c’è da sperare in nulla. Per una donna candidarsi è l’unico modo per avere rilievo in questo partito». Come se fosse poco. Come se Giorgia Meloni si fosse fatta largo, e avesse fondato un partito, a forza di assegnazioni e benemerenze di uomini illuminati. Che poi non si tratta di negare l’evidenza: un certo maschilismo, in Italia, permane in politica come in molti altri settori. Ma in molte professioni le donne hanno raggiunto la parità o la preponderanza senza mai quote o «assegnazioni»: le quali, spesso, per le donne, sono state una più o meno consapevole umiliazione. Le quote – come gli incarichi – restano basate sul fatto che ad assegnarle sono perlopiù uomini, è vero. Ma per banale che sia dirlo, il potere non si assegna: si prende. Il resto è fuffa, o decisione di mettere «tot donne» in lista a manciate, quote-emancipazione, calcoli prettamente maschili che spesso sono valsi anche per l’assegnazione dei ministeri. Dove qualche ministra, non di rado, si è limitata a opporre un clientelismo femminile a quello maschile.