il Giornale, 3 giugno 2019
Il clima mette a rischio il whisky scozzese
Nei primi anni Ottanta dello scorso secolo i nuovi stili di vita e la demonizzazione dell’alcol da parte dei salutisti portarono alla prima grande crisi dello Scotch whisky. Molte piccole distillerie scozzesi chiusero e alcune di loro sono nel frattempo diventate delle leggende: tra esse Dallas Dhu, Kinclaith, Glen Albyn, Glen Mhor, Glenugie, Rosebank, Linlithgow. Alcune di loro continuano a sopravvivere grazie alla commercializzazione a prezzi da amatore (che vuol dire anche qualche migliaia di euro a bottiglia) delle riserve che erano nelle botti quando la produzione si interruppe e che nel frattempo si sono giovate di ragguardevoli invecchiamenti. La Diageo, grande gruppo internazionale degli alcolici, ha deciso di programmare la rinascita di un paio di esse (Port Ellen e Brora), programmato per il 2020: faranno piccole produzioni di nicchia e siamo certi che il mercato dei coinnosseur sarà pronto a contendersi quelle bottiglie a quotazioni elevatissime.
Ora ecco servita la seconda grande crisi del whisky, che probabilmente tra qualche anno nessuno riabiliterà. A provocarla non sono i cambiamenti dei costumi ma quelli climatici, che comunque sempre una qualche ragione umana hanno. Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati in Scozia da un clima secco e caldo insolito per queste regioni tradizionalmente brumose. L’agenzia nazionale per la conservazione della natura ha lanciato qualche giorno fa un allarme, parlando di fiumi smagriti e inquinati, di erosione del suolo, di uccelli scomparsi dalle forsete. E questo scenario apocalittico rischia di avere un impatto pesante su uno dei simboli identitari delle Highlands e della Scozia intera: il whisky, appunto.
L’ondata di caldo ha abbassato notevolmente il livello dei fiumi dai quali molte distillerie prelevano l’acqua che serve alla produzione del distillato, che ha un «water footprint» piuttosto rimarchevole: per ogni bottiglia di wkisky da 750 millilitri servono infatti 322 galloni di acqua, pari a oltre 1200 litri. E alcune distillerie hanno accusato il colpo, perdendo circa un mese di produzione.
«Abbiamo perso l’intera produzione di settembre», ha detto al Guardian Callum Fraser, esponente della famiglia che possiede la distilleria Glenfarclas, che si trova sulle rive del fiume Spey ma che, a differenza di altre distillerie, non attinge al fiume ma possiede una propria riserva idrica naturale, che si è seccata nel corso del periodo di siccità. In quel periodo Glenfarclas ha perso fino a 300mila litri e pare che molti concorrenti abbiano avuto lo stesso problema anche se non tutti lo denunciano.
Il fiume Spey è uno dei più colpiti dalla siccità: la scorsa estate ha avuto in alcuni momenti una portata del 97 per cento più bassa che di solito e in inverno non ci sono state abbastanza piogge per porre rimedio. Ed è il fiume che alimenta il maggior numero di distillerie, se è vero che quella dello Speyside è la valle con la maggiore produzione di whisky della Scozia.
L’emergenza non è passeggera. Secondo gli esperti condizioni climatiche estreme potrebbero verificarsi molto di frquente in futuro e questo potrebbe avere un effetto a catena sulla produzione di whisky: meno quantità, meno produzione, prezzo più alto sul mercato e non a fronte di una maggiore qualità del prodotto. Molte delle distillerie stanno progettando l’installazione di torri di raffreddamento che aiuterebbero a ridurre il rischio di futuri cali di produzione da emergenza climatica, ma si tratta di un’operazione costosa che è alla portata solo delle distillerie più grandi. E così, come nel 1983, l’anno nero del whisky scozzese, a pagare il prezzo più alto della crisi rischiano di essere sempre i più piccoli. Che poi magari decenni dopo diventano delle leggende, ma è una consolazione amara. Anzi, torbata.