L’Economia, 2 giugno 2019
Arrigo Sacchi si racconta
Nella pancia del Rose Bowl di Pasadena, California, fa un caldo africano e non vola una mosca. L’allenatore della Nazionale italiana di calcio ha riunito intorno a sé la squadra che sta per affrontare il Brasile di Romario, Dunga e Bebeto nella finale del Campionato del Mondo 1994. «Ragassi (il cittì è di Fusignano, Romagna, ndr), oggi è il match della vita. Pensate a come può cambiare il destino di un uomo con la volontà e l’impegno. Io ne sono la prova: vent’anni fa vendevo scarpe». L’ultimo rigore di quel match bollente, sparato alto sopra la traversa, lo sbaglia il divin codino con la mira sguercia, Robi Baggio. Ma la leggenda dell’uomo straordinario, il rappresentante di calzature diventato maestro di calcio, Arrigo Sacchi, ne è uscita perfettamente intatta.
La fabbrica
Metà Anni Sessanta, provincia di Ravenna. L’Arrigo figlio di Augusto Sacchi e Lucia Montanari frequenta la quinta ragioneria. «Un giorno, all’improvviso, papà viene ricoverato in ospedale con un grave problema al fegato. E’ accomandatario e socio dell’Iper, calzaturificio a Fusignano». Al primo bivio della vita Sacchi svolta deciso: «Non ci penso su due volte. Interrompo la scuola per entrare in fabbrica: lo faccio per senso del dovere, certo, ma anche perché so che a papà farà piacere».
Come il capitale umano che allenerà in un futuro di cui ancora non sospetta l’esistenza, Arrigo prende le scarpe di petto. «Ho una certa dimestichezza con la contabilità, ma divento responsabile senza una preparazione specifica. Il grande esempio da seguire è mio padre: ex calciatore di Gallaratese e Spal, lombardo del Nord nato a Mandello del Lario, così nordista che i milanesi per lui sono terroni. Ha fatto la guerra sugli aerei siluranti ed è stato fortunato: è uno dei pochi ad essere tornato a casa». Quando Augusto rientra in fabbrica, trova una sorpresa: Arrigo ne ha comprata un’altra e, quando il capofamiglia torna al suo posto di comando, va a dirigerla. «Si tratta dell’Iperflex, sempre scarpe: in Romagna non abbiamo grande fantasia!». Nel frattempo, il giovane Sacchi assolve gli obblighi di leva. «Mi spediscono nell’ufficio dell’Ospedale militare di Torino. E’ vicino al vecchio stadio, vado spesso a vedere allenamenti e partite. Il Colonnello è un grande tifoso della Juve: mi lascia uscire a patto che poi gli faccia il resoconto degli incontri». Come chiedere allo sposo di andare a nozze.
L’agenzia
Tornato a Fusignano, Arrigo scopre che c’è un problema. Di abbondanza, ma pur sempre una grana: «I nostri due calzaturifici si fanno concorrenza. Allora propongo a papà di aprire noi stessi un’agenzia di vendite. Ma io ho un animo stanziale: detesto viaggiare. Mio fratello Gilberto, invece, ha un’empatia straordinaria: fa amicizia con tutti». L’agenzia apre il primo ottobre. L’8 ottobre, a due chilometri da casa, Gilberto esce in curva e muore a 27 anni. Un contropiede micidiale.Il secondo bivio della vita è vicino, nascosto dietro una curva a gomito. «Scomparso Gilberto, chiudo l’agenzia o ci vado io? Ho 21 anni, scelgo la seconda strada. Mi ci tuffo con il solito impegno però ogni volta che devo partire è un dispiacere enorme. Cerco di abbreviare i viaggi ma il 90% delle scarpe lo vendiamo in Europa: sono costretto ad andare in Germania quasi tutte le settimane. Una volta vado e torno da Francoforte in giornata, mi presento puntuale a cena da mamma che trasecola: e tu come fai a essere già qui? A 11 anni, in viaggio con mio padre, avevo avuto una visione: in Germania i lavori più umili li facevano i turchi, gli italiani, i portoghesi mentre i tedeschi giravano in Mercedes. Mi viene il dubbio che la furbizia sia un valore. Mi appunto quel pensiero mentalmente. Mi tornerà utile: nella mia carriera di allenatore lo rispolvererò sempre».
La svolta
A 25 anni l’Arrigo sposa la Giovanna. «E le mie giornate diventano più ordinate. Il bibliotecario del paese, Alfredo Belletti, uomo di cultura e intelligenza infinite, è anche il direttore del Fusignano Calcio, che lotta per non retrocedere dalla seconda categoria. Dai Sacchi, dacci una mano, vieni a giocare, mi dice. Perché bisogna sapere che da ragazzo ho anche giocato difensore; male ma ho giocato. Torno in campo e ci salviamo. L’anno dopo Belletti mi chiede di allenare. E’ il 1973. Per tre anni lavoro e alleno». Fusignano, Alfonsine («dove percepisco il primo stipendio da tecnico»), Bellaria, Cesena. Arriva il momento di riunire moglie e padre. «Devo parlarvi, dico loro. Ho capito che vivrò una volta sola e vorrei fare quello che più mi piace: vi comunico che smetto di lavorare». Seguono il Rimini, il supercorso a Coverciano (grazie a Italo Allodi, un mentore), Parma e lo sbarco sul pianeta Milan, illuminato dall’intuizione di un certo Silvio Berlusconi. Il resto è storia. Campionato, Supercoppa, due Coppe Campioni, due Uefa, due Intercontinentali. Lo scorso marzo France Football ha stilato la classifica dei migliori allenatori nella storia del calcio: dopo Rinus Michels e Alex Ferguson, c’è l’ex rappresentante di scarpe.
«Mai nei miei sogni, quando facevo il commerciante, avrei pensato a una carriera del genere. Mai. Credevo, al massimo, che avrei allenato in Romagna. Ho impiegato 14 anni ad arrivare al Milan, con una sola certezza: si poteva fare di più, e meglio. In panchina, dalla fabbrica, mi sono portato dietro l’etica del lavoro, l’idea di collettivo, l’organizzazione, l’impegno massimo. E l’esempio di papà, che alle 6 di mattina faceva ginnastica cascasse il mondo e poi andava al lavoro. Il primo pallone me l’ha regalato lui: era tifosissimo del Lecco». Dalle scarpe all’Olimpo del calcio, senza mai tradire se stesso. Chissà che orgoglio, per l’Augusto, l’Arrigo. «Sono ancora allenatore del Parma e devo andare a giocare a Campobasso. Mio padre è di nuovo ricoverato in ospedale. Sta male. Al ritorno lo vado a trovare. Papà, devo dirti una cosa: sono il nuovo allenatore del Milan. E lui, da tipo pratico qual era: hai già firmato, figlio mio? Il giorno dopo mi chiama il medico: scusi, ma cosa ha detto ieri al signor Sacchi? Pare rinato».