La Lettura, 2 giugno 2019
Intervista a Elena Ferrante
Nel 2008 mi imbattei in Elena Ferrante per moventi sentimentali: lessi I giorni dell’abbandono e L’amore molesto in cerca di risposte, trovai una scrittrice che peggiorò la situazione. Era il sintomo che Milan Kundera attribuiva agli autori capaci di «allargare le ferite». Anni dopo mi avventurai ne L’amica geniale e a metà del libro dissi basta perché il brusio su questo romanzo – incessante, quasi voyeuristico – confondeva una forza che faticavo ad ammettere: la capacità di Ferrante di scoperchiare i movimenti carsici della vita, ben oltre le vicissitudini di Lenù e Lila. Decisi di aspettare la pubblicazione dell’intera tetralogia per godermela di filato. Ma fu dopo la lettura de La frantumaglia, opera di Ferrante ampliata nel 2016 e dedicata alla propria officina creativa, che decisi di confrontami con l’autore.
La conversazione con Elena Ferrante è avvenuta in un tempo di cinque settimane, attraverso uno scambio di email inviate al suo editore, e/o. Ogni email conteneva una mia sola domanda.
Comincio con il termine «rovistare»: W. G. Sebald sosteneva che uno scrittore in grado di scoperchiare un mondo – come potrebbe essere il continente de «L’amica geniale» – in seguito «rovisterà» nel proprio territorio narrativo con una rivoluzione inattesa. È cambiato qualcosa nel modo di avvicinarsi a una storia dopo la tetralogia?
«È troppo presto per dirlo. O forse è troppo tardi, perché – mettiamo – è già accaduto prima che scrivessi L’amica geniale, chissà quando, ed è proprio L’amica geniale il frutto inatteso di quel rovistare cui lei accenna. Io scrivo molto e non tutto quello che scrivo diventa pubblico. Ho accumulato nel tempo svariati tentativi di racconto, molti erano brutti, privi di un loro equilibrio e quindi impresentabili. Li ho giudicati passi falsi, li ho messi da parte o buttati via. Ma i passi falsi, per qualsiasi cammino e quindi anche per quello letterario, sono importanti quanto quelli che, a un certo momento, ci sembrano veri. Chi dice che la direzione giusta non venga da ciò che è stato scartato o che non ha suscitato clamore? Il problema della vita mercantile dei libri è questo, il clamore. Il successo – di critica, di pubblico, di critica e di pubblico – va benissimo: i libri sono pubblicati per essere letti – con piacere, con profitto – da qualcuno, da molti, da moltissimi. Ma è azzardato stabilire che l’opera che è diventata più acclamata, più discussa, è anche uno spartiacque, un punto di svolta, la linea oltre la quale dobbiamo mettere tutto a soqquadro, e mi preoccupa guardare ai possibili libri futuri in quest’ottica. Preferisco, nel mio caso, pensare che se davvero ho un mondo, io l’abbia messo a fuoco per tentativi ed errori in tempi lontani, ormai, con L’amore molesto. O che se, rovistando rovistando, c’è stata una rivoluzione inattesa, questa sia avvenuta con La figlia oscura, libro di vita grama. O che L’amica geniale sia solo un libro di passaggio per arrivare a una piccola storia che non sono mai riuscita a scrivere e che ora, dopo quella esperienza, mi viene più facile. Voglio dire che, in questo momento, il mio proposito è soprattutto continuare a scrivere in libertà. E la sua domanda mi mette a disagio. Ci rifletto e temo di scoprire che davvero è cambiato qualcosa dopo L’amica geniale. Per esempio, mi sento sul serio obbligata a mutare radicalmente tono e temi, a tentare vie che mi sono estranee? O, al contrario, mi sto costringendo per prudenza ad andare per vie che ormai mi sono note, smarrendo la curiosità che deve avere chiunque racconti? Scrivere in relazione a un successo, sentendosi in obbligo di rivoluzionarsi, di conservarsi, è la fine del piacere di scrivere liberamente».
Sarebbe interessante considerare questo: che nonostante il suo anonimato lei abbia perso comunque la libertà a causa del grande successo. Come se Elena e Lila avessero fissato un modello narrativo che oltrepassa la segretezza. Ma c’è qualcosa nell’officina di uno scrittore che surclassa questo rischio, secondo me: l’imponderabilità dei futuri personaggi. Nascono, si accennano, arrivano dalle ceneri dei vecchi personaggi proprio per dar ragione a un percorso più vasto. Quali segnali percepisce quando una nuova storia sta nascendo?
«Ho al solito in mente una ressa di piccoli momenti significativi. Forse per semplificare dovrei dire immagini, ma sono qualcosa in più, sono frammenti mobilissimi che hanno suoni, odori, sapori, consistenza tattile. È stato sempre così, quasi tutti i miei esercizi di scrittura provano a dare una forma a questi tasselli. Ed è così anche adesso. Muovo da una microazione, difficile da fissare in tutta la sua pienezza, e spessissimo mi fermo quando le potenzialità narrative o semplicemente descrittive mi sembrano esaurite al punto che continuare diventa forzato, per molti aspetti falso. I personaggi, quando succede, si affacciano dal di dentro di questi tentativi di forma. Forse, un po’ esagerando, direi che arrivano tardi, per ultimi, e in principio sono solo funzioni: una madre, una figlia, un padre, uno zio, un marito, un amante. Solo se il frammento pullula di vita complessa, chi lo abita si carica, tra azioni e reazioni, di vita altrettanto complessa. Allora si avvia qualcosa di più promettente di un esercizio. Quanto all’anonimato, no, insisto, io esercito un ruolo, quello dell’autrice, e come tale ho un nome e un cognome. In quanto autrice mi sento, mi voglio sentire – a parte le ansie che le ho esemplificato – tuttora liberissima: posso scrivere, non scrivere, pubblicare, non pubblicare, cedere a una suggestione, sottrarmi, fallire, ricominciare, come accade fin da quando ho cominciato a narrare. Il fatto tutto da indagare è caso mai che cosa succede alle lettrici, ai lettori, quando si accorgono di essere parte di un pubblico vasto. Con una formula parzialmente ironica, direi che l’incognita, per chi scrive, è l’effetto del successo non su di sé ma sul variegato universo che quel successo lo ha determinato o contrastato».
Quanto conta l’incognita nella sua scrittura? O meglio: rispetta dei confini, delle «coerenze», nella sua officina creativa?
«Provo a risponderle citando Manganelli quando diceva che un romanzo è fatto di quaranta righe e due metri cubi d’aria. Aveva assolutamente ragione. Ma io, più che per le quaranta righe, ho sempre provato un grande interesse per tutto ciò che misteriosamente riesce a vivere in quei due metri cubi, sia come lettrice che come autrice. Quando lavoro a un libro non mi importa nemmeno un poco di alto e basso, di avanguardisti e passatisti, di romanzo e antiromanzo, di linee giuste e linee sbagliate. Prendo quello che mi serve, aria fina e aria fritta, la più difficile da dosare, questa, visto che è la più satura di veleni seducenti. Viviamo in tempi in cui i vecchi steccati non fermano più nessuno, in nessun campo. Mi piacerebbe che i lettori che hanno sperimentato il potere di decretare un successo si montassero giustamente la testa e chiedessero la fine dei recinti letterari e sempre più ibridazioni: il Tom Jones insieme al Tristram Shandy, La monaca insieme a Jacques il fatalista, Canne al vento insieme a Gita al faro, Micol Finzi-Contini insieme all’Hilarotragoedia. O comunque incoraggiassero con il loro sostegno tutti quelli che si affannano a scrivere di ciò che sanno bene, combinando, ricombinando, forzando tecniche e forme della tradizione».
Julian Barnes raccontava di come la sua ispirazione risentisse positivamente «del potere di fare una lavatrice tra una pagina e l’altra». Flannery O’Connor usava una carta «più liscia» per la narrativa, solo dopo aver preso appunti per mesi su una carta «con più attrito». Liturgie su liturgie. Mi racconta qualche suo rituale che la accompagna durante la scrittura?
«Sì, però non riesco a trovare niente di interessante. Che so, mi piacerebbe confessarle che metto una puntina da disegno nella scarpa destra per tenere sempre vigile ragione e sentimento, ma sarebbe una bugia. Diciamo allora che per abitudine scrivo al tavolo di cucina, anche oggi che mi occupo relativamente poco di faccende domestiche. E quando non viene fuori niente di buono, tolgo foglie secche alle piante che ho per casa, vedo se la terra è ancora sufficientemente umida. Ma anche questo lo prenda con le molle, alla fin fine è per non risponderle che scrivo e basta».
Mi chiedevo se nel corso della stesura di un suo libro avesse mai affrontato un blocco creativo. E, nel caso fosse accaduto, come ha reagito e come l’ha superato.
«Quando comincio un racconto so che ci sarà un periodo più o meno lungo di tentativi sbagliati. È una fase che detesto, la scrittura è svogliata, so che butterò via quasi tutto. Ma per me è un periodo necessario. Senza quelle prove, non saprei nemmeno riconoscere il momento felice in cui tutto pare muoversi con naturalezza. E d’altra parte, quando quel momento arriva, comincia anche l’ansia che se è andata bene oggi, non andrà bene domani. Infatti quasi sempre la scrittura torna alla pigrizia di partenza e si inceppa. Che cosa faccio per riavviarla? Mi rileggo dal primo rigo in cerca del punto in cui è cominciato l’ingorgo. In genere non finisce bene. Ho parecchi lavori accantonati perché parevano filare diritto ma non era vero. Devo dire però che il primo libro che ho pubblicato, L’amore molesto, è il punto di sbocco di parecchi laboriosi tentativi che avevano perso convinzione. E I giorni dell’abbandono è stato fermo a lungo, prima di trovare pagine finali con un andamento convincente. Insomma, quando si scrive, bisogna mettere in conto sempre, anche a libro ben avviato, il fallimento. Costringere un’esperienza viva dentro l’artificio delle parole forse è per sua natura fallimentare. Persino i libri riusciti sono, a ben vedere, un fallimento magistralmente occultato».
A tal proposito Saul Bellow disse che «scrivere è vestire di carta da regalo una disfatta». Ed è stato proprio Bellow a dichiararsi, come Nabokov, quanto sia la fisicità dei personaggi – e il loro vagare – forse l’unica possibilità di naturalezza di una storia. «L’amica geniale», tutti i romanzi della tetralogia, «L’amore molesto» e se osserviamo bene ogni sua opera hanno nel movimento dei personaggi, nel loro moto, un’energia miracolosamente spontanea. Quanto premedita queste traiettorie e quanto, invece, sedendosi alla scrivania, improvvisa?
«Mi piace molto l’immagine della disfatta in confezione regalo, dice bene come stanno le cose. Sono più incerta, invece, sulla naturalezza. La letteratura è per sua natura la negazione della naturalezza e non volerselo confessare rende spesso impossibile persino camuffare con nastrini arricciolati il fallimento. Fuor di metafora, la naturalezza è un risultato dell’abilità. Natalia Ginzburg è stata una straordinaria maestra di effetti di naturalezza, amo le sue frasi che sembrano improvvisate. Ma in letteratura come in musica, come in tutte le arti, l’improvvisazione è frutto di studio. Io improvviso e in modo premeditato. Il piacere di scrivere sta nelle variazioni inattese tra due stazioni pianificate. So sempre poco di ciò che scriverò: se sapessi non dico tutto, ma anche solo abbastanza, me ne andrei a passeggio. Resto al tavolo volentieri solo se mi sorprendo. E più mi sorprendo, più mi pare di governare bene la pagina».
Mi sono accorto che dopo il mio penultimo romanzo – che ha avuto una discreta risonanza – al momento di rimettermi a scrivere percepivo un’indecisione ricorrente (ricordo le mani, e in particolare l’indice destro, con un tremore tutte le volte che battevo al computer). Ci è voluto un po’ di tempo per sciogliere e ritrovare la «sicurezza del silenzio», come la definiva Hemingway. Percepisce in qualche modo che il successo mondiale della tetralogia e le conseguenti aspettative dei lettori, stiano in qualche modo interferendo con il suo processo creativo?
«È interessante la storiella del suo indice destro. Mi pare di capire che in quel tremito lei ha visto il disagio, forse lo spavento, della mano che scrive dopo un successo. Be’, le è andata bene. Il tremito dell’indice è il meno, il rischio più grave, per chi scrive dopo un successo (ma anche dopo un insuccesso), è la paralisi, il corpo intero che si rifiuta di esporsi a una nuova prova. Ma la cura migliore è convincere il nostro indice tremulo che seguiteremo a scrivere, non possiamo farne a meno; pubblicare invece lo faremo solo se il tremito passa».
Ha voglia di raccontarmi l’atmosfera, o il territorio narrativo, o anche un dettaglio, su una storia a cui sta lavorando e a cui tiene più di altre – sempre che stia lavorando su una nuova storia?
«No, mi dispiace, non ne ho voglia. E non la consideri una scortesia. Finché non pubblico, scrivere riguarda solo me».
Non la considererei mai una scortesia. E come disse W. Somerset Maugham a un giornalista a cui negò informazioni sul libro in divenire: «Rimane sempre il secondo dente del cobra su cui indagare: la lettura». Ha autori che continua a rileggere e opere che l’hanno colpita ultimamente?
«Sì, leggere è fondamentale, sempre, e specialmente quando si vuole scrivere. Da ragazza ho macinato di tutto, in modo disordinato, per lo più in traduzione. Dopo la laurea invece ho cominciato a leggere sistematicamente i testi della grande tradizione italiana. Ha presente gli ascetici Scrittori d’Italia della Laterza? Considero tuttora quei volumi un pozzo da cui è possibile trarre non poco per affilare i nostri strumenti oggi: lessico, sintassi, modi per dare forma all’esperienza. L’idea che non abbiamo una solida tradizione romanzesca ci ha fatto prendere un abbaglio: il romanzo forse no, non è cosa che ci appartiene (lo dico dubitativamente perché è un tema non riducibile a mezza frase) ma il racconto in versi e in prosa è presente dappertutto, spesso ci sono frammenti preziosi dove meno te li aspetti, e si impara moltissimo. Senza dire di formule strepitose sepolte in testi di secoli fa, alle quali si può dare, si deve dare, un nuovo presente. Quanto ai libri di oggi, non mi va di citare uno o due titoli. Ho in mente un lungo elenco di autrici italiane e di gran parte del pianeta – devo ammettere che in questo momento penso solo a nomi di donne – che mi pare stiano facendo un lavoro tutto da studiare».
Mi chiedevo se avesse mai accantonato l’atto della scrittura, o anche il desiderio per essa, allontanandosi da questo territorio a tal punto da pensare di fare tutt’altro mestiere.
«Non ho mai pensato alla scrittura come a un mestiere, e probabilmente ho sbagliato. Il mestiere riguardava il lavoro e il lavoro per me è stato sempre un obbligo indotto dalla sopravvivenza. Scrivere era invece un amore clandestino, una passione segreta, qualcosa che c’era ma che poteva di colpo finire lasciandomi priva di senso».
La segretezza come stato naturale, e forse imprescindibile. Al contrario, quando questo nome e cognome – Elena Ferrante – è stato un peso per lei?
«Mai. La scrittura, quando hai l’impressione che sia venuta finalmente bene e possa andare in pubblico, ti pare all’improvviso leggera. Poi probabilmente verrà il momento in cui penserò che avrei fatto meglio a tenermi tutte queste pagine per me e sentirò il peso della mia leggerezza. Ma – devo ammettere con qualche imbarazzo – non è ancora successo».