La Lettura, 2 giugno 2019
Intervista al coreografo americano John Neumeie
Un ragazzo di ottant’anni con i capelli grigi corti e folti, la cravatta allentata su una camicia dalle maniche rimboccate, l’atteggiamento concreto di chi passa dal giorno alla notte senza mai smettere di lavorare. In una girandola di applausi, fiori, sorrisi e lacrime di gratitudine, Amburgo ha abbracciato alla Staatsoper il cittadino onorario John Neumeier nella festa di gala per l’ottantesimo compleanno, il cui ricavato finanzierà il progetto di un istituto del balletto destinato ad accogliere le collezioni del coreografo americano dedicate ai memorabilia di Vaslav Nijinsky e dei Ballets Russes di Diaghilev. Un omaggio-spettacolo dal titolo The world of John Neumeier, concepito dal coreografo americano, partendo dalle proprie radici – lo scintillio di Broadway e il fascino di Hollywood – per avviare il racconto (narrato e ballato) dell’amore per la danza, scaturito dalla musica di Leonard Bernstein e George Gershwin, dalla visione dei film dell’atletico Gene Kelly e dell’elegante Fred Astaire, alimentato dal filo rosso degli incontri che l’hanno condotto a creare uno straripante fiume di coreografie modellate sui ballerini di ieri e di oggi, invitati al gala ad animare, ancora una volta in scena, un caleidoscopio di personaggi: il moderno Orfeo di Roberto Bolle, la Duse mélo di Alessandra Ferri, il vulnerabile Nijinsky di Guillaume Côté, la sofisticata Karenina di Olga Smirnova e l’olimpico Vronski di Artem Ovcharenko. Al centro della scena, la gemma più grande del tesoro Neumeier, gli splendidi danzatori del Balletto di Amburgo, la compagnia che il maestro di Milwaukee (nel Wisconsin dirige dal 1973 dopo aver guidato il Balletto di Francoforte.
Il 5 e 6 luglio prossimi, venerdì e sabato, l’Hamburg Ballett giungerà in esclusiva italiana a Ravenna Festival con il trittico composto da Beethoven Fragments (creato nel 2018), At Midnight (2013) sui Rückert-Lieder di Gustav Mahler e Birthday Dances (1990) sul Divertimento per orchestra di Bernstein in scena al Teatro Alighieri.
Il suo compleanno, il 24 febbraio, è coinciso con il 130° anniversario della nascita di Nijinsky. Quanto l’icona del balletto ha segnato il suo avvicinamento alla danza?
«Sono sempre stato interessato a quest’arte. Avevo già iniziato i miei studi quando lessi la biografia The tragedy of Nijinsky scritta da Anatole Bourman, compagno di corso di Vaslav alla Scuola di Balletti imperiali a San Pietroburgo: mi colpì il volto umano che ne usciva. La vita di Nijinsky mi ha consegnato un’idea palpitante di balletto».
Ha creato circa 140 titoli sviluppando tre filoni: i balletti sinfonici, spirituali, quelli ispirati a letteratura e teatro. Quanto attinge alle sue passioni private?
«Mi sono ispirato alla letteratura e alla musica che resta la fonte primaria, per quanto possa influenzarmi anche la personalità del danzatore con cui lavoro».
È soddisfatto delle sue esperienze di regia e coreografia nella lirica, dall’«Otello» di Verdi all’«Orfeo ed Euridice» di Gluck, e in «West Side Story»?
«L’interpretazione dell’opera e del testo impone limitazioni all’uso del tempo. Al contrario del balletto che mi consente un’assoluta libertà, una condizione che amo profondamente. Ho raggiunto l’equilibrio nell’ultima versione di Orfeo ed Euridice in cui avevo cantanti motivati a sperimentare. In questo caso, quasi il 90% dell’opera è ballato: persino quando il canto funge da solista, la danza fa da contrappunto. Ho creato un nuovo universo temporale. Ma la condizione più appagante è la creazione di un mondo nato da musica e movimenti umani».
Gli incontri importanti della sua vita, innanzitutto con il coreografo John Cranko. È stato per lei un modello artistico quando ha fondato la Scuola di Amburgo? E com’è nata l’amicizia con Maurice Béjart?
«Non penso che Cranko sia stato un esempio così importante per me rispetto all’idea di coreografo-direttore di una compagnia di balletto. Come accade ai giovani autori che si trovino a lavorare con un maestro, sono stato spinto a creare un mio mondo autonomo. Quanto a Béjart, lo conobbi mentre ero coreografo a Francoforte: quell’incontro fu di grande ispirazione per capire come la tecnica classica potesse, e possa ancora oggi, raggiungere un pubblico giovane. Invitai la compagnia di Béjart ad Amburgo per il mio primo festival: lì diventammo molto amici e Maurice creò Les Chaises per me e Marcia Haydée in coppia».
Dalle fine degli anni Sessanta, vive e lavora in Germania tra Stoccarda, Francoforte e Amburgo. Quanto ancora si considera americano?
«Sono nato negli Stati Uniti dove ho vissuto fino all’età di vent’anni: perciò non posso rinnegare il mio Paese. Mi è accaduto – per caso o destino, non saprei dire – di approdare in Germania per lavoro. Ero molto giovane quando assunsi la direzione a Francoforte. Fui poi invitato ad Amburgo dove ho vissuto la costante evoluzione di una compagnia di danza sempre più grande e internazionale, oltre alla fondazione della scuola e alla costruzione di un centro per il balletto, in una struttura con nove sale e un dormitorio per allievi».
A proposito di eredità del suo lavoro, ha creato nel 2006 la Neumeier Foundation: come ha progettato di mantenere nel tempo lo spirito del suo repertorio?
«La fondazione è deputata non solo alla gestione dei miei lavori ma anche alla tutela dei diritti e delle licenze. Dovrà essere nominato un comitato artistico che affronterà il delicato lavoro della conservazione delle mie coreografie e della loro trasmissione alle future generazioni di danzatori. Ad Amburgo lavorano molte persone, in qualità di ballet master e docenti della scuola: la tradizione è forte e potrà risaltare nella cura del repertorio da me creato».
Qual è la sfida per il balletto?
«Rimanere onesto e non farsi moda. È un’arte viva».