La Lettura, 2 giugno 2019
Mussolini e le parole in camicia nera
Nel suo Me ne frego, una raccolta di interventi di Benito Mussolini dal 1904 al 1927, pubblicata recentemente da Chiarelettere, David Bidussa ci invita a riflettere su come parliamo. Oggi, come nel Ventennio, nel mondo politico c’è chi dice «tiro dritto», «prima gli italiani», «chi si ferma è perduto». Sono espressioni fasciste, di cui dovremmo essere più consapevoli, anche perché la lingua fu un terreno su cui i fascisti misurarono la loro capacità di modificare la società italiana.
Dopo aver censurato i dialetti nei programmi scolastici e sulla stampa, il regime si impegnò alacremente per reprimere le minoranze linguistiche sia nella sfera pubblica, con gli interventi nell’istruzione scolastica, sulla toponomastica, nella pubblica amministrazione, sia in quella privata con i provvedimenti sull’onomastica. Del resto, la lotta contro l’uso delle parole straniere non ebbe termine fino alla Seconda guerra mondiale. Nel 1940 ne fu proibito l’uso sulle etichette, sulle insegne e nelle pubblicità. Addirittura un’apposita commissione, istituita presso l’Accademia d’Italia, indicò le espressioni straniere da eliminare e le relative sostituzioni. Alcune entrarono nel lessico comune, altre non ce la fecero: cialdino al posto di cachet, fin di pasto per dessert, arlecchino per cocktail no; ma regista invece di régisseur, calcio d’angolo per corner e autista invece di chauffeur, sì.
Si trattò di un problema che attirò l’attenzione dei più importanti linguisti e filologi italiani, da Bruno Migliorini a Antonino Pagliaro, dei politici e di noti intellettuali, come mostra la campagna di stampa lanciata dallo scrittore Bruno Cicognani sul «Corriere della Sera» per la sostituzione del pronome allocutorio lei con il voi. Convinto che il lei fosse «una femminile e boriosa astrazione», Cicognani riscosse il consenso di autori come Elsa Morante, Salvatore Quasimodo ed Elio Vittorini, anche loro persuasi che si trattasse di un tema di grande rilievo. Lo stesso Mussolini nell’autunno del 1938 mise sullo stesso piano le questioni linguistiche e quelle razziali e rivendicò con orgoglio tre «poderosi cazzotti allo stomaco» sferrati dal fascismo alla borghesia italiana: l’introduzione del passo romano, l’abolizione del lei e l’adozione della legislazione razziale antisemita.
In realtà, proprio lui, Mussolini, trasformò la lingua e la comunicazione politica. Richiestissimo dai circoli operai, e per niente restio ai bagni di folla, nel febbraio del 1910, sostenne che «la vecchia oratoria a base di volate rettoriche» aveva fatto il suo tempo. Cinque anni dopo, prestò attenzione al linguaggio utilizzato dai soldati al fronte. Orgoglioso di fare parte di un reggimento nel quale erano rappresentati «tutti i distretti d’Italia», Mussolini elencò, nel suo diario, le parole più diffuse nella trincea con la relativa traduzione: scalcinato significava soldato debole, baule cretino, svirgola cannonata, pipa rimprovero, vedere il mago rimanere indietro, portare a casa la ghirba tornare a casa sano e salvo. In questo senso è vero – come nota Bidussa nell’introduzione – che il linguaggio del Duce nacque ben prima che egli diventasse capo del governo e desse vita a un regime totalitario razzista e antisemita.
Nel novembre del 1921, Ugo Ojetti scrisse sul «Corriere della Sera» che Mussolini era un «oratore espertissimo», dotato di tre qualità particolari: «un periodare compiuto» che non lasciava mai una frase in tronco, «una frequenza di definizioni morali, pittoresche e incisive» che restavano facilmente nella memoria e, soprattutto, un esprimersi «perentorio» e polemico, costruito in opposizione al discorso persuasivo liberale, un parlare ironico e mordace che faceva costante riferimento alle argomentazioni dell’avversario per mostrarne l’inconsistenza e delegittimarlo. Da allora e fino alla fine del regime, il capo del governo utilizzò la capacità oratoria che tutti gli riconoscevano come un’arma per realizzare gli obiettivi del fascismo, preparando meticolosamente i suoi discorsi e impegnandosi in prima persona nella diffusione del mito di sé stesso. Oltre agli interventi in Parlamento, e a quelli che fece alla radio e in tutti i luoghi d’Italia, il capo del governo parlò dal balcone di Palazzo Venezia circa settanta volte, studiando movenze e inflessioni vocali. Come notò il filologo Victor Klemperer, si trattava di un «predicare appassionato» con «qualcosa di rituale, di chiesastico», con frasi brevi che ricordavano i «frammenti di una liturgia», con le urla della folla, le interruzioni entusiaste, oppure i fischi sonori al nome di qualche avversario. E sempre il gesto del saluto fascista, il braccio destro teso verso l’alto, introdotto da Gabriele d’Annunzio durante l’impresa fiumana. Questa oratoria, che al Parlamento preferiva la piazza gremita di folla, divenne un modello per gli italiani. In effetti, Mussolini introdusse nel lessico espressioni sepolte da tempo – come duce, gerarca, manipolo, milizia, balilla, camerata, avanguardista, littorio, autarchia e, soprattutto, fascista.
Dunque, le sue parole non restarono un esercizio retorico: si trasformarono in fatti politici, rivolti a combattere i nemici del fascismo e a forgiare, come Mussolini amava dire, il carattere degli italiani. La sua voce risuonò nelle loro case non solo perché egli seppe affascinare e sedurre le masse, ma perché le inserì nelle strutture dello Stato totalitario. In questo senso la politica linguistica è uno degli aspetti di quella nuova forma di dominio che fu il totalitarismo e, quindi, dire Me ne frego non basta per essere fascisti. Occorre vivere sotto un regime che su quelle parole, pesanti come pietre, costruisce una dittatura trasformando la lingua e la vita di milioni di persone.