La Lettura, 2 giugno 2019
Il potere del «carino». Intervista al filosofo Simon May
Il più improbabile dei filosofi è, a sua insaputa, un gattino senza bocca che invoca e dispensa tenerezza, Hello Kitty. O l’essere di un altro mondo catapultato sulla terra per sgranare occhioni da cucciolo umanoide, E. T.. Era stato anche «riccioli d’oro» Shirley Temple ed era stato Topolino... Tutte, ciascuna a modo suo, manifestazioni del cute, del «carino», che il filosofo Simon May, con sprezzo dell’altezzosità accademica, affronta con serietà in un saggio opportunamente intitolato The Power of Cute. Il «potere del carino», appunto. Perché – scrive – il cute non rappresenta «una frivola distrazione dallo spirito del tempo ma, al contrario, una sua potente espressione». Che mette in evidenza attitudini sociali e psicologiche, rivela le mappe di valori cui sottostiamo.
Professore, nel suo libro lei cita l’«ubiquità» del «carino». È per questo che ha scelto di affrontarlo come una categoria filosofica?
«Sì, mi intriga perché il cute è ovunque intorno a noi e perché credo che questa sua ubiquità ci dica cose affascinanti sul nostro mondo. I filosofi se ne sono quasi del tutto disinteressati perché sembra volgare, infantile. Invece icone globali come Hello Kitty e Pokémon parlano della celebrazione che la modernità fa dell’infanzia, della transitorietà, dell’indeterminatezza delle cose. Per quanto gli oggetti carini e il gusto del “carino” possano apparirci volgari, quel che ci racconta del mondo è tutt’altro che volgare o irrilevante. Per dirla un po’ alla Nietzsche: sarà anche superficiale, ma viene dal profondo».
Quando il «carino» ha fatto il suo ingresso nella cultura popolare?
«Le prime tracce risalgono a metà Ottocento, per esempio con la mania americana per i cosiddetti baby show, dove madri e infanti si esibivano in pubblico, o il fenomeno di General Tom Thumb, che a 24 anni era alto 79 centimetri scarsi e divenne una celebrità negli Stati Uniti e in Europa. Il vero boom si registra dopo la Seconda guerra mondiale, con Topolino, e soprattutto dagli anni Ottanta, per esempio con i pupazzi Cabbage Patch Kids o, più di recente, con Hello Kitty e Pokémon. Dagli anni Ottanta il Giappone è diventato il quartier generale globale del cute, il primo Paese a presentarsi come cute nation, con il ministero degli Esteri che nomina addirittura tre ragazzine come “ambasciatrici” del cute».
Per lei il «carino» abbatte i confini tra categorie o perlomeno li sfuma. Come nel caso della differenza fra infanzia ed età adulta. Che cosa significa?
«Lo vediamo già dalle star bambine del cinema negli anni Trenta, così ammiccanti, persino provocanti, e dunque adulte, come Shirley Temple. Negli anni Ottanta arriva l’extraterrestre E. T. che ha 10 milioni di anni e, insieme, è bambinesco, mentre Hello Kitty chiaramente non è né adulto né bambino. Questo confondere i margini tra realtà adulta e infantile esprime quella che è un’evidentissima tendenza dell’ultimo secolo: da un lato, a partire da Freud, vediamo il bambino come sempre presente e attivo, perché le esperienze dell’infanzia sono considerate fondative per la vita dell’adulto; dall’altro, gli oggetti “carini” spesso riflettono il contrario, cioè il modo in cui il mondo dell’adulto penetra sempre di più in quello dell’infanzia, soprattutto per quel che riguarda la nostra autonomia nell’attribuire valore alle cose e nel nostro essere consumatori».
Lei sostiene che il «carino» intercetti lo spirito dl tempo...
«Sì, ed è la cosa affascinante del cute».
E quali sono, allora, gli aspetti del mondo che il «cute» mette a nudo?
«Primo, lo sfumare i margini, come dicevamo prima: vale non solo tra infanzia ed età adulta, ma anche per altre distinzioni come quella maschio/femmina, umano/animale, buono/cattivo, esperto/naif. Secondo, il cute riflette il grado di sacralità che l’infanzia ha raggiunto oggi. Terzo, il “carino” più seducente non è perfettamente innocente e innocuo, tipo gattini e cucciolotti, ma è quello proprio di figure in qualche misura imperfette, deformi, persino minacciose, come Hello Kitty, che non ha né bocca né voce né dita, o la bambola So Shy Sherri o, ancora, le sculture Balloon Dog di Jeff Koons. Quarto, gli oggetti cute esprimono tutto questo in quel modo leggero tipico di oggi, un po’ come gli emoji che usiamo ormai tutti, dai 9 ai 90 anni. E c’è un ultimo aspetto. Il “carino” è molto in sintonia con la rivalutazione dell’effimero e del transitorio in contrapposizione con il permanente e l’assoluto: una linea che parte da Nietzsche».
In un punto del libro lei cita un saggio di una studiosa di Chicago che ha scritto del «cute», Sianne Ngai, secondo la quale un certo grado di violenza «è sempre presente nella relazione con l’oggetto carino». Perché chiamare in causa la violenza?
«È vero che in un contesto patologico la vulnerabilità di oggetti e soggetti carini può soddisfare fantasie sadiche o perverse. Ma non è questa la violenza intrinseca alla sensibilità cute. Al contrario, gli oggetti cute mettono spesso in discussione la nostra idea di chi o di cosa detenga il potere. Per esempio, nonostante l’apparente vulnerabilità degli esseri cute, ci si può sentire protetti da essi proprio in virtù di quella loro fragilità: lo dimostrano le mascotte. Gli oggetti carini interrogano in profondità le nostre certezze su chi abbia o non abbia potere».
Il «carino» è parte della cultura pop ma sembra essere più di una semplice categoria estetica. Ha anche implicazioni morali?
«Sì, la tendenza del cute di imporre qualità umane a cose non umane solleva autentici interrogativi morali, soprattutto sul potere. In particolare il “carino” è una via narcisistica per godere del potere su persone e cose vulnerabili? O, di converso, sollecita istinti altruistici? Potrebbe valere la prima ipotesi ma anche la seconda e dunque liberare un’attitudine accuditiva. Due psicologi sociali, Gary Sherman e Jonathan Haidt, si sono spinti a considerare la reazione al “carino” un’“emozione morale” per eccellenza perché ci induce a vedere sconosciuti o animali o oggetti fuori dalla nostra cerchia immediata come bisognosi di protezione o di cura e dunque ci stimola ad allargare la nostra preoccupazione morale. In più, un etologo come Konrad Lorenz considerava le caratteristiche cutecome essenziali per evocare l’accudimento parentale degli infanti».
È per tutto questo che il «carino» ci seduce? O c’è dell’altro?
«Succede perché, nelle modalità – come dire? – non solenni di oggi, il cute esprime una sorta di libertà dalla tirannia delle relazioni di potere e dalla ricerca del permanente e dell’assoluto. Parla, credo, alle due anime che confliggono dentro di noi e che non sono più il corpo contro lo spirito, il fisico contro il mentale, il terreno contro il celeste o l’impermanente contro la fissità. Queste due nuove anime sanciscono una visione del mondo aperta, indeterminata e governata dal caso e, dall’altro lato, un desiderio senza precedenti di sicurezza, chiarezza, comfort e controllo. Nel suo modo volgare e facile, il cute dà voce a queste due anime dell’anima moderna. Forse esagero un po’, e magari sovrastimo tutta la questione, ma penso che siano queste le radici dell’enorme appeal del cute».
Prima o poi il «cute» perderà la sua aura?
«Sì, quando non riuscirà più a esprimere le realtà profonde del nostro mondo. Ma, ovviamente, non sappiamo quando accadrà».