La Lettura, 2 giugno 2019
Breve storia del cosplay
Il termine giapponese kosupure (cosplay) è un neologismo che unisce «costume» e play. Divenuto popolare in Giappone negli anni Novanta, il termine fu usato, pare, per la prima volta dal produttore Takahashi Nobuyuki nel 1983 in un articolo sulla rivista «My Anime» per descrivere i fan vestiti come personaggi di manga o anime in occasione della celebre convention Comiket di Tokyo. Generalmente associato al regno del fandom o a quello delle convention – interpretate nei saggi accademici come spazi del carnevale o come spazi «sacri» e comunitari cui accedere attraverso una sorta di pellegrinaggio – il cosplay, in realtà (e sicuramente in Giappone) non è limitato all’esibizione in un dato posto e in un particolare momento, ma può avere luogo pressoché ovunque. Mediando creativamente tra realtà e finzione, il cosplayer, al contempo consumatore e produttore di cultura, assume un’identità in cui mascheramento e immedesimazione si fondono per dare vita a una performance definita da Ellen Kirkpatrick «traduzione incorporata»: il trasferimento, cioè, di un personaggio dal paesaggio infinito della finzione a quello reale delimitato dal corpo fisico. In questo processo transitorio di trasferimento la smaterializzazione di una molteplicità di confini diventa possibile: nella pratica del crossplay, interpretando o identificandosi in un personaggio di sesso diverso, il cosplayer può esplorare la fluidità del gender e di essere «altro» rispetto al sé quotidiano. Che abbia luogo all’interno o all’esterno del fandom e delle competizioni, il cosplay consente di sperimentare identità alternative e di oltrepassare i confini che separano il fruitore dal testo (mediatico) con cui interagisce, dando di quest’ultimo un’originale lettura tridimensionale.