La Lettura, 2 giugno 2019
Quelli che si travestono da personaggi dei cartoni
«E poi ci sono persone mascherate da personaggi dei fumetti e dei cartoni animati. C’è un Capitan Harlock spettacolare». Così, nel 2001, il mio fidanzato, di lì a qualche anno marito, mi vendeva la fiera del fumetto di Roma, che all’epoca si chiamava ancora Expocartoon. Io mi ero avvicinata seriamente al mondo della cultura pop da poco grazie a lui. Quella sarebbe stata la mia prima fiera. E l’accenno a gente travestita mi catturò subito.
Ho sempre amato mascherarmi. Mi piace il Carnevale, da bambina amavo giocare drappeggiandomi addosso un lenzuolo di quando ero neonata, che potevo immaginare come una tunica, o uno strascico, o un vestito da sposa. Così per me fu naturale dirgli: «Perché non lo facciamo anche noi? Perché non andiamo in costume?».
All’epoca, in Italia il cosplay era una realtà minuscola. Niente costumi rutilanti che sembravano usciti dalla sartoria di un film, niente servizi alla tv. Chi si mascherava era un poveretto con evidenti problemi relazionali. Ma a me non interessava. L’idea mi stuzzicava, e volevo farlo.
Quella prima volta mi vestii da Ranma versione ragazza. Una cosa semplice, che riuscii a mettere assieme con uno spray per capelli rosso, un maglioncino modificato e un paio di pantaloni larghi. Ricordo ancora la sensazione, nel guardarmi allo specchio della mia stanza. Sembro uscita dal fumetto, pensai, anche se era tutto un po’ raffazzonato. Ma mi guardavo e vedevo la creatura di Rumiko Takahashi. Erano bastati un maglioncino, un paio di pantaloni e un po’ di inventiva.
Ho ricordi confusi di quella prima esperienza. La vergogna mentre camminavo per strada prima di entrare, con la gente che ci guardava chiedendosi perché fossimo vestiti così. E poi quella sensazione di benessere appena varcato l’ingresso, la percezione chiara di essere a casa, in mezzo ai miei simili.
Ho fatto cosplay finché ho potuto: mi servivano tempo e un contesto che venisse incontro alle mie capacità manuali. Poi è arrivato il lavoro come scrittrice, e la famiglia, e tante altre cose che hanno limitato il tempo che potevo dedicare a questo hobby. La comunità del cosplay cresceva, e i costumi diventavano sempre più belli ed elaborati: io ormai sfiguravo, con i miei materiali raccogliticci, i miei vestiti sempre simili, ma mai davvero uguali a quelli del personaggio che interpretavo. Allora ho smesso, concedendomi solo qualche incursione in quel mondo cui però sento ancora di appartenere: la giornata in armatura – vera, in acciaio brunito, così pesante da lasciarmi sfinita, la sera, quando la tolgo – a Lucca Comics & Games, il kimono che ho messo una volta al Romics, il cosplay di Amy Pond del Dottor Who, fatto due anni fa mettendo insieme vestiti comprati in giro.
È difficile spiegare il cosplay a chi non lo pratica. Non so neppure se ciò che spingeva me a farlo è la motivazione che muove tutti i cosplayer. Forse ognuno ha le sue ragioni, forse non c’è un’unica via. Per me era importante l’aspetto creativo; è quel che guida tutto, nella mia vita, dalla scrittura all’abbigliamento eccentrico, dalla passione per la pasticceria a quella per gli origami. Il cosplay era solo un’altra via, un modo per esprimere me stessa, e farlo forzando i miei limiti. Volevo realizzare un costume, perché mi piaceva il personaggio, ad esempio, o il vestito. E allora dovevo inventarmi come fare. Non so cucire, e questo pone un limite ai costumi che posso realizzare, ma si può sempre ovviare con la fantasia: ho costruito armature in cartoncino, fabbricato katane di legno, realizzato scrigni argentati per armature. Ho persino fatto un paio di parrucche, intrecciando fili di lana uno a uno su un vecchio cappellino all’uncinetto. Era sempre uno spasso trovare il giusto compromesso tra le mie capacità e la complessità del costume: dovevo inventarmi soluzioni creative, cercare i giusti materiali. Ricordo la gioia quando scoprii che esisteva questo cartoncino di argento lucido, che sembrava proprio lamierino. Potevi persino farci su delle incisioni che sembravano a sbalzo. Lo scorso anno, con quel cartoncino, un tappetino da yoga e uno specchio ho realizzato un accessorio per mia figlia che, ça va sans dire, vuole vestirsi anche lei, quando andiamo alle fiere del fumetto.
Ci voleva del tempo, ed era anche frustrante, e quasi sempre il risultato finale non mi soddisfaceva del tutto. Ma quando mettevo insieme i pezzi, e mi specchiavo per la prima volta, mi riconoscevo, e sapevo che non era stato tutto inutile: ancora una volta, la magia si era ripetuta. Ero Caska, eroina guerriera del mio manga preferito, ero Kenshin, ronin del Giappone post-medievale, ero Alita, androide alla ricerca di sé stessa. Perché oltre al piacere di realizzare qualcosa con le mie mani, c’era questo miracolo: vivere le storie. Questo significava per me fare cosplay. Dare corpo, anche per un giorno soltanto, a un immaginario che mi aveva colpita, affascinata, cambiata. E non farlo da sola, ma con altri.
Il conduttore televisivo statunitense Adam Savage una volta l’ha spiegato magistralmente, raccontando di quando si vestì come uno spirito di un film di Miyazaki, e la gente iniziò a comportarsi con lui come se fosse davvero un demone.
Questo è il cosplay.
È un immaginario condiviso, è dare corpo, e voce, e volto, tutti assieme, a quelle storie che ci hanno reso ciò che siamo, e ci porteremo dentro per sempre.
Qualche anno fa, poi, è successo qualcosa. Nella folla di Lucca Comics & Games, per la prima volta, ho visto occhieggiare una parrucca blu e un vestito di pelle nero. Era Nihal, uno dei miei personaggi. Da allora, ne ho visti molti, in giro: Dubhe, Sennar, Sofia, Pam... a volte gruppi interi, numerosi e bellissimi. E ogni volta è come la prima. Li fermo, chiedo una foto, e non so chi sia più emozionato, se io o loro. Perché io so cosa ti spinge a vestirti come il personaggio di un libro che ami, so come ti senti a farlo, ed è indicibile l’onore che provo nell’essere in grado di stimolare queste sensazioni con le storie che scrivo. E di nuovo mi sento come quella prima volta a Roma: parte di una comunità, a casa.
Sembriamo strani e un po’ matti. Capirci è difficile. Ma portiamo in giro con più spavalderia qualcosa che ognuno di noi, anche chi non si è mai travestito in vita propria, conosce: il potere immenso delle storie.