Avvenire, 2 giugno 2019
La maledizione delle materie prime
È stato l’economista inglese Richard Auty il primo a proporre, nel 1993, la tesi della «maledizione delle materie prime». Lo studioso britannico ha avuto il merito di aprire il dibattito accademico su una dinamica evidente a chiunque le presti attenzione: il percorso di sviluppo delle nazioni ricche di materie prime è generalmente più lento di quello degli altri Paesi, quasi sempre accompagnato da alti livelli di violenza e corruzione e guidato da regimi autoritari. Negli anni successivi economisti più famosi di Auty, a partire da Jeffrey Sachs, hanno contribuito a sviluppare la sua tesi, introducendo modelli econometrici che dimostrano come in effetti questa “maledizione” esiste davvero: tranne rari casi, i Paesi ricchi di risorse naturali crescono meno degli altri, hanno maggiori problemi di disuguaglianza e minori libertà politiche.
Il problema è che sono sempre di più. L’Unctad – l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di commercio, investimenti e sviluppo – qualche giorno fa ha pubblicato il nuovo rapporto sullo “Stato della dipendenza da materie prime”. Il numero di Paesi dipendenti dalle materie prime energetiche, minerarie o agricole non è mai stato così alto nei vent’anni in cui l’organizzazione ha condotto studi di questo tipo. Nel periodo 20132017 i Paesi considerati “dipendenti” – quelli cioè in cui le materie prime rappresentano più del 60% dell’export – sono saliti a 102, dieci in più rispetto ai 92 del periodo 1998-2002. La grande maggioranza di quegli Stati è in aree povere. Quarantadue sono nell’Africa subsahariana, dove le nazioni “dipendenti” sono l’89% del totale. Altri tredici tra Nordafrica e Medioriente, diciassette in Sudamerica. Nessuno nell’America del Nord e solo due all’interno dell’Europa: la Grecia e la Norvegia. In cinque nazioni – Angola, Iraq, Chad, Guinea-Bissau e Nigeria – la quota di export che arriva dalle risorse naturali supera il 98%.
«La dipendenza dalle materie prime è spesso legata a vulnerabilità e povertà. Uno stato così persistente che non solo descrive il presente di un Paese, ma anche il suo probabile futuro» avverte Pamela Coke-Hamilton, responsabile della divisione Commercio internazionale e materie prime dell’Unctad. Il ri-È schio principale a cui va incontro una nazione ’dipendente’ è quello di subire uno choc dovuto alla volatilità dei prezzi. Tutte le
commodities, dal petrolio al cacao passando anche per la pancetta di maiale, hanno prezzi di riferimento internazionali che si formano sui mercati finanziari, come la Borsa di Chicago.
I valori dei futures sulle materie prime possono muoversi secondo la normale dinamica della domanda o dell’offerta o possono essere sfruttati per manovre puramente speculative. Un Paese la cui economia dipende dalla quotazione del petrolio o da quella del rame è così in balìa delle mosse dei fondi di investimento, oltre che dal normale andamento dei mercati. I governi faticano a gestire questi choc.Quello che succede è piuttosto chiaro. I governi dei Paesi ricchi di materie prime, molto spesso poco demo-cratici, aumentano la spesa pubblica quando il prezzo delle risorse esportate sale, dopodiché quando il mercato cambia direzione si trovano a corto di risorse. Il caso del Venezuela, sotto questo aspetto, è tragicamente esemplare, ma ci sono tanti casi minori. Ad esempio Mozambico e Zambia hanno approfittato dell’improvviso boom dei prezzi di alluminio per aumentare le uscite dello Stato e non sono riuscite a contenerli quando le quotazioni sono diminuite. L’analisi dell’Unctad mostra che in diciassette nazioni povere dipendenti dalle materie prime (quasi sempre energetiche o minerali) il debito esterno, pubblico e privato, è aumentato del 25% in rapporto al Pil tra il 2008 e il 2017. Con casi estremi come quello della Mongolia, particolarmente ricca
di ferro, carbone e oro, in cui il rapporto debito-Pil è volato dal 39 al 245%.
La via d’uscita da questa trappola starebbe nella diversificazione: occorre cioè prendere i profitti ottenuti dalle risorse naturali e investirli in attività a valore aggiunto, così da ridurre la dipendenza dell’economia del Paese dalle sole materie prime. L’esempio della Norvegia, di gran lunga il più ricco degli Stati dipendenti dalle risorse naturali, è un famoso caso positivo in questo senso. Ma anche altrove ci stanno provando. Diverse nazioni, per esempio gli Emirati e il Qatar, stanno cercando di sviluppare un’industria della raffinazione, così da portarsi più in alto lungo la catena del valore del settore petrolifero. Altri, come Brasile e Colombia, hanno lavorato con successo per aumentare la produzione manifatturiera. Nell’Africa subsahriana alcuni Paesi si sono adoperati per diversificare meglio il loro export di materie prime, restando dipendenti dalle risorse naturali ma almeno allargando l’offerta: in Ruanda e Camerun, per esempio, alla crescita delle vendite di minerali si è accompagnato lo sviluppo dell’agricoltura. L’Arabia Saudita ha invece un enorme piano per rivoluzionare la sua economia allargandola a settori altamente competitivi, ma la partenza è stata molto modesta. E sono comunque casi rari, come quello del Ghana, di cui si parla in questa pagina. La verità è che in vent’anni è cambiato poco e quel poco che è cambiato spesso lo ha fatto in peggio. «La vulnerabilità di questi Paesi diventerà la vulnerabilità delle nostre ambizioni di sviluppo» avverte Coke-Hamilton. Non è solo un problema di quei Paesi, è sempre piùanche nostro.