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 2019  giugno 02 Domenica calendario

Intervista a Vinicio Capossela

Vinicio Capossela non ha tempo; o meglio: ha un tempo tutto suo. Racconta il suo braccio destro, mentre lo attendiamo nella hall di un albergo: “Per anni mi sono preoccupato degli orari, di evitare ritardi, soffrivo nel rimandare, mi giustificavo, poi piano piano ho capito: quando finalmente arriva, accade sempre qualcosa di particolare, incontri inaspettati e importanti, situazioni meravigliose, così mi sono lasciato andare; ha un timing naturale non spiegabile, solo da vivere”.
Vinicio Capossela non va incasellato, quando parla è meglio lasciarsi andare alle sue suggestioni, le citazioni, i percorsi e gli approdi.
Magari l’ironia è dietro la malinconia, o la malinconia può sembrare evidente mentre è solo una constatazione priva delle comuni protezioni; i perché iniziali aprono differenti interrogativi e improvvisamente anche il crostaceo diventa un parametro esistenziale.
Il suo ultimo album, Ballate per uomini e bestie, è in testa alle classifiche, e per una volta – caso raro – critica e pubblico scoprono in questo ragazzo-uomo di 53 anni un punto di comune giudizio.
Appare Capossela. Caffè? “Non posso prenderlo, ma se arriva lo bevo”.
Lei ha un punto comune con il “Fatto”: il “Fuori Orario” di Gattatico.
Posto magnifico, da 17 anni ho un concerto il giorno della Vigilia. Poi sono molto legato a Parma: già da ragazzo, quando ci vivevo, amavo tantissimo suonare il pianoforte ma non ne avevo uno, quindi andavo in ogni locale della città, alla Corale Lirica di Verdi o al Parma Lirica, posti pieni di immagini di tenori, un po’ come i calciatori, ma non particolarmente conosciuti; il bello era questo ambiente popolare della lirica, intesa come aspetto cittadino.
Suona qualunque pianoforte?
Non ho necessità particolari, li vedo come degli animali randagi: con gli strumenti sono un po’ animista; oramai ho raccolto una serie di pianoforti di dubbia fama, a cui mi sono molto affezionato.
Lei e il tempo.
Amo il detto “il tempo non si è mai sposato per poter fare quello che vuole”.
Quindi…
A me interessa quello che gli studiosi definiscono “tempo verticale”; l’orizzontale è dedicato agli accadimenti, all’orologio, il verticale è del mito, delle emozioni che mettiamo da parte, a cui accediamo magari attraverso una canzone. Dove le cose non passano.
Con una canzone.
L’attività della poesia, e della musica, è di trasferirci dove la ruggine non corrode: è quello che vogliamo salvare della vita. Viviamo in un mondo in cui il tempo è totalmente desacralizzato.
Lei e gli amici.
Tutt’al più conoscenti, c’era una bella frase di Paul Éluard: “La nostra riunione è pulita come il tavolo prima del pranzo”. Secondo lui conoscersi bene poi sporca, invece quanto è bello quel momento in cui la tovaglia è pulita e c’è solo un’impressione che ci può attrarre nei confronti dell’altro.
Meglio non approfondire.
La mia tendenza è quella di fermarmi alla soglia delle impressioni perché è il momento che emoziona di più.
Però…
C’è un motto che potrei scrivere sulla mia tomba: “Tutto è bene quel che non finisce mai”; vale lo stesso per le amicizie e le relazioni.
Infinite.
Tendo ad andare oltre anche la fine naturale; continuo a sentirli, a coltivare rapporti.
Tutto in piedi.
Ho il tabù della fine, in qualsiasi cosa, non riesco neanche ad addormentarmi la notte, voglio leggere, scrivere, pensare, credo sia una cosa psicoanalitica. Devo farmi vedere.
I cambiamenti.
Comportano sofferenza e il dolore è una forma di attrito (ci pensa). Ad esempio i crostacei.
Cosa?
Hanno questo guscio che li avrebbe resi invincibili: chi li avrebbe mai potuti mangiare? Invece la natura li ha obbligati alla muta, quindi per un periodo perdono quella corazza, e in quel momento sono potenziali vittime.
Detto questo?
Fa capire la sofferenza continua del cambiare.
Quando l’ha percepito?
Da subito, fin da bambino, quando capisci che quel giorno è diverso dal precedente; l’esperienza della vita è una continua cicatrice di piccole e infinite separazioni: opporre resistenza rende l’esistenza dolorosa.
Conservatore, e rischia di passare per sovranista.
I sovranisti in realtà non conservano niente, vogliono sfasciare tutto, azzerare.
Dicono di voler mantenere.
Allora lo mantenessero. E, comunque, piuttosto sarei monarchico: ci pensi il Re e mi tolgo il pensiero (posa la tazzina del caffè). In tedesco c’è una bellissima distinzione tra due parole che indicano entrambe un senso di appartenenza al mondo che ti ha generato: una più legata alla cultura, un’altra al concetto quasi sanguigno della Patria.
Quali?
Patria è un termine maschile in tedesco: Vaterland, “terra dei padri”, ed è qualcosa che crea un legame di sangue e spesso porta conseguenze sanguinose. Invece Heimat è femminile, e dà un senso di appartenenza che ognuno è in grado di definire per sé: la tua Heimat può essere il pianoforte, oppure un libro.
E la sua Heimat?
I miei genitori sono nati in un paese che poi hanno lasciato, sono emigrati, ma non si sono mai liberati: quindi io sono abituato a portarmi dietro le mie cose, in modo da avere delle “Itache”.
Quali?
Un’Itaca portatile, che uno riconosce un po’ dove trova: mi sono abituato a sentire come Patria oggetti immateriali.
Alla Van Gogh.
Anche con gli oggetti sono animista, le case meritano di essere allestite anche solo come loro ricovero: sono i residui della vita.
Viene venerato come un maestro.
No! È che quando sei un disgraziato che passa da una parte a un’altra non sanno come chiamarti: “dottore” non è possibile, “signore” non va più di moda, allora “maestro”.
Da Zalone a Emma, da Arbore a Guccini e Ligabue, i suoi fan sono trasversali. C’è chi la definisce “genio”.
L’arte è saccheggiare di continuo, e con accezioni positive e necessarie. Tom Waits diceva che la musica è come una fila interminabile di persone che si passano l’acqua per spegnare un incendio che non sanno neanche dov’è.
Quindi per lei…
È bello stare a disposizione per far circolare un po’ di idee: ho un’inclinazione a mettere nelle mie canzoni, o nei concerti, parti che non ho scritto, a cui ho aggiunto qualcosa, e non per appropriarmene. Quando godi della fiducia di qualcuno puoi donare sassolini che poi aprono altre porte: ho iniziato la mia carriera come cantante pre-biografico e confidenziale.
Tradotto?
Confidenziale perché raccontavo fatti miei; pre-biografico perché queste storie d’amore che, di solito finivano male, poi mi finivano male davvero.
E…
Ho iniziato a occuparmi di biografia collettiva, dell’uomo in sé, sono diventato più antropologo, mi hanno conquistato le metafore bibliche, mitiche. Così ti raccordi alla storia dell’umanità fino a produrre dischi pre-biografici sull’umanità stessa: ne ho inciso uno sul Medioevo e il Medioevo è arrivato.
Precursore.
Quando ho iniziato neanche lo sapevo.
Anche Nanni Moretti con le dimissioni del Papa…
L’artista deve avere un po’ il ruolo di medium, deve interpretare il suo tempo senza comprenderlo a fondo.
Da adolescente ha mai cantato sulla spiaggia?
No.
Un falò?
Da grande e per Sant’Antonio in Sardegna, e lì ho compreso il significato catartico, quando ho visto buttare nel fuoco cartelle di Equitalia, cartelle cliniche e altre scorie.
Quindi la musica non le è servita per gli approcci.
Non è andata bene neanche con i miei dischi.
Non è possibile.
Immaginate la scena: invito una donna a cena, poi le piazzo un mio brano, magari una canzone triste, e lei sicuro si addormenta.
Si è mai dissociato dal suo personaggio pubblico?
Ho fatto vari tentativi prima di accettare il mio nome: ho realizzato un concerto chiamandomi Andrei Sengemini, un altro come Vinicio Gualtieri. Poi ho rinnegato il cognome.
Troppo lungo?
Quando ero piccolo e la Lega riteneva i meridionali come quelli in più, mi resi conto che i cognomi settentrionali finivano sempre con la “i”, quelli del Sud spesso con la “a”; a quel tempo, al liceo musicale, l’appello veniva cantato, allora andai dal professore e gli dissi: “C’è un errore, in realtà mi chiamo Caposseli”.
Visti capelli e barba, la scambiano mai per arabo?
Per rabbino, a volte chassidim, e ritengo la loro mise di un’eleganza unica: trovo molto civile una religione che prevede l’utilizzo del cappello.
Perché?
Intanto, togliendolo, permette di dimostrare il rispetto, e poi è un armadio portatile: manda segnali a seconda della stagione.
Quanti ne ha?
Credo 150. Ma il cappello decide lui se abbandonarti: due o tre volte mi sono commosso quando li ho visti annegare.
Che è successo?
Una volta a Genova un colpo di vento lo ha scaraventato in acqua, così a Londra sul Tamigi, o sul ponte di Lione.
Alberoni cita spesso la sua frase “Che coss’è l’amor. Chiedilo al vento”.
Prima di candidarsi con Fratelli d’Italia?
Sì.
Per me l’amore è un sentimento molto sopravvalutato, molto invadente, e per spiegare che la situazione è tragica ma non seria, ci ho messo due “esse”; una giorno una signora di Napoli ha definito l’amore come un “ergastolo”.
Più vento o più ergastolo?
Sull’amore sono più facili le domande delle risposte.
Nell’ultimo album parla anche dei social. Come reagisce ai selfie?
Li trovo un gesto di cattiva educazione; siamo in una fase completamente selvaggia, anzi primitiva a livello comportamentale: non è stato codificato un galateo, non c’è la separazione tra “in scena” e “fuori scena”.
Meglio un abbraccio.
O le parole, la scrittura, uno scambio, e non strappare un momento artificiale.
Ha un ruolo pubblico.
E prevede una maggiore responsabilità.
La sua gioventù è negli anni Ottanta, il periodo dei paninari.
Per fortuna sono cresciuto in Emilia e c’era la new wave: mi piacevano i Cure, e mi sono fatto crescere il ciuffo.
Si truccava?
Una leggera matita nera, ero carino, un po’ effeminato, con amici punk. L’unico aspetto insopportabile del periodo erano le pennette alla vodka, il vino Corvo, l’uso della panna; forse i pericoli più grossi erano enogastronomici.
Ha avuto la fama dell’inaffidabile.
Nella vita può essere, non per i concerti: sono sempre stati l’unica mia certezza, anche quando giravo molto e vivevo dentro una Volvo.
Maldicenze.
Mi piace avere una pessima fama, ma voglio guadagnarmela su aspetti reali.
All’inizio si è cimentato con il piano bar.
Ero pessimo però chiedevo poco, e la padrona del locale ci teneva a risparmiare; alla fine della prima settimana la responsabile mi rivolse una richiesta: “Le è possibile solo suonare senza cantare?”.
Risposta?
“Va bene”, eppure a quel tempo ero scarso nel suonare.
Il suo repertorio?
Cantavo con la mia ragazza di allora, suonavamo Édith Piaf, Tenco, Tom Waits, tutto un gruppo di perdenti internazionali. Ovviamente lei mi ha lasciato.
Ama i perdenti…
Hanno scritto grandi canzoni più dei vincenti.
Perché perdenti?
Forse si saranno messi a rischio della loro esistenza, e poi non credo nel lieto fine, la vita non lo prevede. La vita prevede la fine. E io sono un cantante della fine.