Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2019
Storia dello scetticismo
Lo scetticismo è stata l’ultima delle grandi filosofie ellenistiche a “ritornare” nel periodo umanistico, incidendo poi a fondo nello sviluppo sia della filosofia rinascimentale che di quella moderna. Fu un “ritorno” in grande stile, reso possibile dalla versione delle Ipotiposi di Sesto Empirico di Henri Estienne uscita a Parigi nel 1562, ripubblicata poi nel 1569 in volume con la versione di Gentian Hervet degli Adversus mathematicos. Sempre a Parigi, nel 1621, apparve la prima edizione del testo greco completo, con le versioni latine e la vita di Pirrone di Diogene Laerzio. Nello spazio di cinquanta anni “ritornarono” i testi fondamentali di Sesto Empirico, aprendo una nuova stagione della fortuna dello scetticismo antico.
Questo non vuol dire che prima delle versioni parigine Sesto e lo scetticismo fossero stati completamente ignorati. Non è così. Tracce di Sesto sono state individuate già nel Medioevo (e qui si può ricordare un importante lavoro di Walter Cavini pubblicato nel 1977), ma un lavoro assai importante era stato già avviato a Firenze nel Quattrocento. Poco nota in una parziale traduzione latina in circolazione fin dai primi anni del Trecento, l’opera di Sesto “ritorna” in greco nel Quattrocento, è utilizzata da Filelfo, Aurispa, Palla Strozzi, Bessarione, ed è conosciuta nella seconda metà del secolo da Ficino, Giovanni Pico, Poliziano. Decisiva, per la conoscenza di Sesto, era stata anche la traduzione delle Vite dei filosofi fatta da Ambrogio Traversari, per impulso anzitutto di Niccolò Niccoli e di Cosimo de’ Medici, al quale è dedicata il 30 aprile del 1433.
Nella fortuna di Sesto, e nel sollecitarne la traduzione e la circolazione, ebbe in quegli anni – e va sottolineato – un peso decisivo fra Girolamo Savonarola, come testimonia e conferma il lavoro fondamentale svolto da due suoi importanti seguaci: Antonio Vespucci e Gian Francesco Pico della Mirandola. Il primo lo tradusse con l’aiuto di Zanobi Acciaioli; il secondo, nell’Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis Christianae disciplinae, pubblicato nel 1520, utilizza a piene mani Sesto Empirico per confutare in chiave apologetica tutte le scuole filosofiche antiche. Prima che a Parigi, Sesto era “tornato” dunque a Firenze nel quadro di un programma filosofico di carattere apologetico imperniato sulla critica delle scienze profane e su una generale riconsiderazione del sapere e della enciclopedia delle scienze, sviluppate, l’una e l’altra, alla luce delle rigorose confutazioni di Sesto del sapere antico.
Era un “ritorno” che avveniva e si imponeva nel pieno di una lunga, e dura, discussione che toccava problemi filosofici ed epistemologici e questioni teologiche e religiose, destinata ad acuirsi in forma drammatica nei decenni delle guerre religiose che insanguinano l’Europa nel Cinquecento, nella crisi degli ideali umanistici.
Una crisi ben evidente alle personalità più sensibili e acute del secolo, che cercano di individuare strategie per uscirne. Per alcuni è lo scetticismo, nelle sue varie modalità, la via da battere; per altri, occorre imboccare una strada opposta. Giordano Bruno, che di quella crisi è pienamente consapevole, propone una religio, più che anticristiana, postcristiana, attaccando in modo frontale nella Cabala del cavallo pegaseo proprio lo scetticismo e Sesto Empirico, nella persuasione che la negazione della possibilità della verità e l’apologia della fides che ne consegue siano il frutto maligno del ciclo ebraico-cristiano dal quale occorre uscire se, dopo secoli di tenebre, si vuole rivedere la Verità sia sul piano religioso che su quello filosofico. È rivelatrice la battuta con cui definisce Francisco Sánchez, autore del Quod nihil scitur, uno dei massimi testi dello scetticismo rinascimentale, recentemente messo in circolazione da Claudio Buccolini: «Mirum quod onager iste appellat se doctorem».
Ma la fortuna dello scetticismo, e di Sesto, va ben oltre Gian Francesco Pico e Giordano Bruno; coinvolge grandi personaggi come Montaigne, Charron, Gassendi, Bayle, fino a Hegel, il quale individua nello scetticismo lo strumento teorico più efficace per sviluppare una critica rigorosa, e radicale, dell’intelletto aprendo lo spazio al dispiegarsi della Ragione.
È merito di Marco Sgattoni avere affrontato da un punto di vista originale il problema, mostrando come lo scetticismo, promosso da Savonarola in chiave apologetica, abbia percorso sentieri differenti, talvolta opposti, trasformandosi nelle mani degli eretici italiani in uno “strumento” sovversivo, connettendosi da un lato alla critica di Lorenzo Valla, dall’altro alle istanze proprie del platonismo fiorentino. È importante da questo punto di vista il rilievo assegnato a Sébastien Castellion e al suo testo De arte dubitandi et confidendi, ignorandi et sciendi imperniato nella rivendicazione della funzione, e del significato, del dubbio, e della necessità della sospensione del giudizio, quando non fosse possibile comprendere la Rivelazione in tutti i suoi aspetti. Quel Castellion che, criticando Calvino per aver voluto, approvato, difeso la condanna di Serveto, se ne esce in battute memorabili e sempre attuali: «uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è solo uccidere un uomo. Quando i ginevrini hanno ucciso Serveto non hanno difeso una dottrina, hanno ucciso un uomo (…). Non si dimostra la propria fede bruciando un uomo ma facendosi bruciare per essa».
Qui la funzione civile e religiosa dello scetticismo – e l’incidenza decisiva che esso ha nella elaborazione del concetto moderno di tolleranza – appare in piena luce. Ma fu un processo complicato, come Sgattoni dimostra, mettendo a fuoco le opposte posizioni dei due editori francesi di Sesto. Da un lato, Estienne – cristiano riformato – per il quale lo scetticismo ha anche un «valore terapeutico, la capacità (…) di riportare gli uomini alla coscienza dei loro limiti conoscitivi, spingendoli così ad abbandonare la vuota e pericolosa scientia per dedicarsi invece alla charitas»; dall’altro Hervet – legato a modelli controriformistici – che vuole servirsi dello scetticismo per ribadire il primato della fede e della religione.
Una lunga, e complicata, storia dunque, nella quale è Michel de Montaigne ad avere un ruolo centrale, facendo con gli Essais «un manifesto dello scetticismo, veicolando la crise pyrrhonienne nel cuore dell’epoca moderna». È Montaigne il «protagonista incontrastato della rinascita cinquecentesca dello scetticismo», l’autore dell’«opera più radicale e di più vasta influenza». Un giudizio che si può condividere.