Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2019
In Italia fra 25 anni uno su tre sarà over 65
Nell’Italia del 2039-40, quella in cui compirà vent’anni il neonato evocato dal presidente Vincenzo Boccia nell’ultima assemblea di Confindustria, ci saranno 18,8 milioni di cittadini con 65 anni o più, secondo le proiezioni Istat, 5 milioni in più di oggi. La popolazione in età da lavoro (15-64 anni) si sarà ridotta a sua volta di 5 milioni (a 33,7 milioni), a conferma della transizione demografica molto severa in pieno corso nonostante i continui flussi di migranti.
Venerdì il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha spiegato nelle sue Considerazioni finali che il trend riguarda tutta l’Europa, visto che tra 25 anni gli over 65 stimati da Eurostat saranno il 28% nel complesso dell’Unione. Ma in Italia la dinamica è più spinta, e si arriverà al 33%. L’invecchiamento dei baby boomers premerà sulla spesa previdenziale e assistenziale nella totale assenza (almeno per ora) di una seria politica attiva per garantire l’occupazione per la fascia sopra i 55 anni.
Meno giovani al lavoro
Due indici ci spiegano tutto: l’ageing index (rapporto percentuale tra over 65enni e under 15) e l’indice di dipendenza strutturale (popolazione in età non lavorativa sulla popolazione in età da lavoro). Il primo ha superato il 165% nel 2017, il secondo viaggerà tra vent’anni attorno al 80%. Come ha ben messo in chiaro Bankitalia in un Occasional Paper di qualche mese fa (431/2018) il nostro Paese si troverà tra appena due decadi in un territorio inesplorato, perché se è vero che il tasso di dipendenza strutturale sarà tornato ai livelli del 1911, questa volta non sarà, come lo fu allora, per la maggior numerosità degli under 15 ma per la crescente popolazione di over 65. Le prospettive sono completamente diverse. Calcola il demografo Antonio Golini, coautore del volume appena pubblicato con Marco Valerio Lo Prete (“Italiani poca gente”; Luiss University press) che oggi in Italia gli occupati di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quelli che definiamo “giovani”, sono 5 milioni e 77mila, il 40,8% dei 12,5 milioni di residenti della stessa età. Appena vent’anni fa, i giovani lavoratori erano 7,6 milioni, il 46,4% dei 16,5 milioni di giovani di allora. L’anno scorso, insomma, avevamo un terzo dei giovani occupati in meno rispetto al 1998. C’entra la crisi, ma soprattutto il fatto che negli ultimi vent’anni un giovane italiano su quattro è letteralmente svanito nel nulla. Mentre invece gli anziani crescevano, fino a raggiungere il 22,7% della popolazione. Con una presenza sempre più forte sul mercato del lavoro, soprattutto a causa dell’innalzamento dell’età pensionabile. Nel 2008 gli occupati tra i 55 e i 64 anni erano 2,4 milioni, dieci anni dopo sono saliti a quota 4,3 milioni, il loro tasso di occupazione è passato dal 34,3 al 53,7%. I dati Istat ci dicono che in questa fascia d’età sono diminuiti gli scoraggiati, ovvero gli esclusi dal mercato del lavoro. Molti si sono attivati nella ricerca di un posto e il numero di inattivi con i capelli grigi è sceso da 4,6 milioni a 3,4 milioni. In parte hanno trovato un’occupazione, in parte no e sono finiti tra i disoccupati, che in questa fascia sono passati da 79mila a 262mila, con un tasso di senza lavoro senior quasi raddoppiato (dal 3,1 al 5,7%), sull’onda dei licenziamenti registrati durante la crisi. Guardando all’andamento dell’ultimo decennio, comunque, i lavoratori tra 55-64 anni hanno fatto registrare la migliore performance occupazionale. «Con la legge Fornero e il Jobs act la fascia d’età degli over 55 è rimasta più a lungo al lavoro e più difficilmente licenziabile – spiega Claudio Lucifora (Economia del lavoro all’Università Cattolica di Milano) -, mentre gli interventi normativi sul lavoro autonomo hanno fatto sì che in molti casi i lavoratori senior usciti in anticipo per la pensione siano stati poi riassunti come consulenti dalle aziende, a causa della loro maggiore esperienza. Ora Quota 100 impedisce di andare in pensione e continuare a lavorare. Ma con l’aspettativa di vita stabilmente sopra gli 80 anni il tema dovrebbe essere quello dell’invecchiamento attivo».
Dividendo negativo
Bankitalia analizza gli effetti contabili sulla crescita del Pil legati alla variazione delle dimensione e della struttura della popolazione. Con risultati da brivido: il demographic dividend, pari alla differenza tra il tasso di crescita della popolazione in età da lavoro e la popolazione complessiva, è passato in territorio negativo all’inizio degli anni ’90. E in proiezione resterà negativo nei prossimi quattro decenni, con un picco di -8% tra il 2031 e il 2041 (senza il contributo dei lavoratori stranieri il dato sarebbe peggiore), per poi tornare in positivo nel 2051-2061. Per trovare un nuovo equilibrio di crescita sostenibile in una società più vecchia lo studio di Bankitalia indica tre strade. Da adottare tutte insieme: allungare gli anni di vita lavorativa, aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro e incrementare i livelli di istruzione. Politiche di orizzonte lungo che da sole non basteranno. Come dice Golini il declino demografico è scritto e l’immigrazione non basta a contrastarlo: «Serve una presa di coscienza culturale, capire che avere un bambino non è solo un fatto privato di una famiglia ma un contributo alla crescita di un Paese». E servirebbero, aggiungiamo noi, politiche a sostegno della natalità ben più importanti di quelle immaginate finora.
L’active ageing che non c’è
In realtà si sta andando in tutt’altra direzione con misure come Quota 100 che puntano all’uscita anticipata, con conseguenze prevedibili sulla tenuta del nostro sistema di welfare. Il presidente del Cnel, Tiziano Treu, sottolinea che «in Italia finora non si sono fatte politiche di active ageing, anzi si sono incentivati pre-pensionamenti, scivoli ed esodi volontari. Dobbiamo passare dall’incentivo all’uscita a politiche di accompagnamento». Il Cnel ha istituito un Osservatorio sull’invecchiamento attivo, Treu invita a guardare all’Europa per utilizzare un menu di strumenti come il part-time, la formazione continua, soluzioni su orari di lavoro, ergonomia e competenze, la modifica della curva retributiva e l’incentivazione ad iniziative di mentoring, per il trasferimento delle competenze. Secondo un’analisi di Randstad solo il 20% delle aziende ha adottato pratiche di active ageing, contro un 26,4% che punta invece a facilitare le uscite dal mondo del lavoro. Parla di “paradosso dell’invecchiamento” Claudio Lucifora: «Nonostante le aziende italiane abbiano oggi la forza lavoro tra le più anziane al mondo fanno molto poco per fronteggiare il fenomeno, vanno adeguate le politiche in materia Hr, serve una profonda riorganizzazione».