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 2019  giugno 02 Domenica calendario

Ricordo di Massimo Troisi

Ho conosciuto poche persone pigre come Massimo Troisi, e ancora meno che avessero la sua intelligenza. Le due caratteristiche erano intrecciate, e la sua folgorante capacità di intus legere trasformava ogni cosa, anche la paura e il dolore, in comicità irresistibile. Massimo era in grado di vedere in anticipo la conclusione di ogni cosa senza diventare per questo un conservatore: centellinava il piacere di ogni esperienza per poterla apprezzare meglio, e il senso della fine nasceva dalla consapevolezza della propria malattia.
Lo avevo conosciuto grazie a Giovanni Benincasa, un amico di scuola per cui Massimo provava un grande affetto, e l’inizio del nostro rapporto nacque grazie allo scambio di videocassette. Allora era l’unico modo per sfuggire ai palinsesti televisivi, e io avevo raccolto una collezione di tremila titoli. Mi colpì il fatto che il grave problema cardiaco non generasse in lui alcuna cupezza, ma il contrario: aveva una contagiosa voglia di vivere e godere. Conosceva la virtù della gratitudine, e la malinconia affiorava solo a tratti, riscattata subito dal dono dell’ironia. I nostri incontri avvenivano di pomeriggio, perché la mattina dormiva, e una volta gli dissi che Isaac Singer aveva scritto: «La pigrizia conduce alla pazzia». Mi illudevo di essere provocatorio, ma lui non poteva essere più contento, e replicò con una frase di Chesterton: «Pazzo è colui che ha perduto tutto tranne la ragione». Era così, Massimo, ti sembrava indifeso e apatico, ma invece era lucidissimo, molto più colto di quanto si potesse credere.
Pochi giorni dopo che il Napoli vinse il primo scudetto, fu invitato in una trasmissione televisiva, e Pippo Baudo gli raccontò che in uno stadio del settentrione era apparsa la scritta «siete i campioni del Nord Africa». Massimo replicò al volo: «Meglio essere campioni del Nord Africa che scrivere cose da Sud Africa». In quegli anni esisteva ancora l’apartheid, e più di una volta parlammo di razzismo, tema che aveva affrontato in Ricomincio da Tre. «Quando viaggia, il protagonista è costretto a ripetere che è un turista e non un emigrante. L’aggio sentito n’coppa ‘a pelle mia». Era troppo disincantato per prendere attivamente posizioni politiche, ma sul razzismo non si tirava indietro: «Nasce dalla paura e dall’ignoranza, e le accuse che fanno sono tale e quale a loro».
Quando conobbe il successo si trasferì a vivere in una magnifica casa dei Parioli, dove ti faceva accogliere da un cameriere in livrea: ma nel giro di pochi attimi il suo calore meridionale faceva scomparire quell’approccio innaturale, e capivi che era il modo di mettersi alle spalle una infanzia umile e caotica. Era orgoglioso di essere nato in un sobborgo pieno di vita come San Giorgio a Cremano, e parlava con fierezza del padre Alfredo, ferroviere, della madre Elena, casalinga, e dei cinque fratelli, tutti più grandi di lui. Aggiungeva subito che questo era solo il nucleo stretto della famiglia «vivevano con noi anche i nonni, i miei zii e i loro cinque figli: eravamo diciassette, e parlavamo uno n’coppa a n’ato». La casa era il cuore della sua esperienza e la prima fonte dei suoi sketch, dalla quale tuttavia aveva sentito la necessità di andar via: «simmo come ‘na pianta», mi disse, quando a mia volta mi trasferii negli Stati Uniti, «che per crescere deve trovare il proprio spazio al sole. Statt’accorto a non taglià le radici, però: la pianta muore immediatamente».
Era affascinato dalle contraddizioni e dai paradossi, perché portavano linfa vitale alla sua concezione dell’esistenza. Amava profondamente Pasolini, proprio per le sue contraddizioni: «Ma tu capisci che era cattolico e marxista, eretico e affascinato dall’ortodossia…solo isso o’ poteva esse». Era rimasto turbato da come Pasolini si fosse definito «traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto» e continuava a riflettere su «un tema così tragico che ha spaccato il mondo». «Mi ha messo in crisi quando ha scritto che “è un’enorme comodità per la maggioranza della gente: nei sogni, come nel comportamento quotidiano, io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là ero esistente».
Conosceva quel passo a memoria, Massimo, e il dubbio lo coltivava in ogni cosa, sapendo che le convinzioni assolute sono la negazione della vita stessa. Ne faceva spesso materia della sua stessa arte: «Nei film americani gli attori tentano sempre a’ battuta perfetta, ma io vivo nell’incertezza», raccontava, e iniziava quindi un’esilarante imitazione in napoletano di attori che spaziavano da John Wayne a Bruce Willis, sempre prontissimi a dire la cosa giusta e definitiva. Dell’incertezza aveva fatto un pilastro della sua poetica, ma faceva impressione quando parlava anche di incompletezza: si riferiva alla sua condizione fisica, ed era uno dei rari momenti in cui affiorava la malinconia. Un suo grande rammarico era quello di non avere conosciuto i maestri della commedia partenopea, e rifiutava il paragone con Totò ed Eduardo De Filippo: «Aggio a magnà ancora pane», diceva, e la sua umiltà era sincera. Non avrebbe reciso per nulla al mondo le proprie radici: aveva una profonda passione per Pulcinella, che interpretò in maniera mirabile per Ettore Scola. «Pulcinella è tragico e comico» ripeteva, «e ce fa pensà».
Uno dei grandi rimpianti della sua vita è stato non poterlo interpretare anche per Roberto De Simone nella versione immaginata da Stravinskji: fu a causa di una ennesima crisi cardiaca, dovuta al deterioramento delle valvole al titanio che gli erano state installate da ragazzo. Negli ultimi mesi lo sguardo sempre più emaciato lo faceva sembrare un Buster Keaton nato a Napoli, ma rigettava anche questo paragone: «Chillo era nu genio vero», diceva, e poi, dopo averci pensato un attimo aggiungeva: «E poi che c’azzecca: io rido». Considerava l’amicizia un tesoro, e voleva molto bene a Roberto Benigni: la riuscita di Non ci resta che piangere nasce da un’intesa basata su una grande stima reciproca e dal piacere gioioso del divertimento. Aveva un formidabile ascendente sulle donne e rideva se lo definivi un don Giovanni, ma era un seduttore del tipo più irresistibile. Ma viveva tutto ciò con pudore, come la sua malattia. Poco prima di iniziare Il Postino mi parlò improvvisamente dei problemi cardiaci, chiedendomi informazioni su centri specializzati in America: la situazione era grave e avrebbe dovuto sottoporsi a un trapianto di cuore. Decise invece di rinviare l’operazione alla fine della lavorazione: non era pigrizia quella volta, «È il film della mia vita», spiegava «non posso metterlo a rischio». Se ne andò nel sonno due giorni prima della fine della lavorazione: aveva quarantun anni, e non aveva mai perso la volontà di essere felice.