La Stampa, 2 giugno 2019
Missoula, il campo di prigionia degli italiani in America
Missoula è una città del Montana, Nord-Ovest degli Stati Uniti. Alla sua periferia, disteso su un ampio altopiano contornato da colline, sorgeva Fort Missoula, un campo d’internamento per «enemy alien», vi furono ristretti gli italiani resistenti, apposta venne chiamato «spaghetti lager».
Siamo nel versante Ovest dello spartiacque del Nord America, quella linea geografica che trancia in due lo Stato – di qua i fiumi che sfociano nell’oceano Pacifico, di là quelli che vanno ad annegarsi nell’Atlantico – e che definisce il confine climatico tra i due versanti, per l’aria più temperata proveniente dal Pacifico che non ce la fa a spingersi oltre, verso l’interno. Quindi, a Ovest, sì le Montagne Rocciose più settentrionali, però inverni meno rigidi, estati fresche, buone condizioni per l’agricoltura e venti deboli che poco o nulla riescono a opporre alle nuvole basse e alla nebbia, frequenti nelle valli, fitte da doverle scansare a forza di braccia. A Est, il clima diventa continentale di tipo steppico, s’inasprisce da viverci come dentro una cella frigorifera.
Il campo divenne attivo nel 1941, all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Ospitò poco meno di duemila italiani, molti nati in America ma con il difetto, inconciliabile con la paranoia che pervase la nazione dopo Pearl Harbor, di un cognome italiano e di non essere tra i 5 milioni che s’erano naturalizzati. Nulla importò che fossero in America da così tanto tempo o da così tanta discendenza da non sapersi più districare nella lingua madre. Vi furono ristretti persino familiari di soldati che stavano combattendo in Europa per la nuova patria e di alcuni già restituiti dentro un bara avvolta dalla bandiera a stelle e strisce.
Ai 600 mila che avevano mantenuto la cittadinanza d’origine capitarono gli arresti domiciliari – singolari quelli di Giuseppe Di Maggio, padre di Joe, l’idolo del baseball che nel contempo mieteva successi americani -, l’obbligo di non potersi spostare dalla propria abitazione oltre il raggio di cinque miglia e di presentarsi per fornire le impronte digitali, il coprifuoco, questo anche con la conseguenza della perdita dei posti di lavoro notturni, perquisizioni, divieto di tenere radio a onde corte, armi, macchine fotografiche, binocoli, torce elettriche, talvolta il sequestro dei beni. E furono chiusi circoli italiani, ristoranti, bar, pizzerie, scuole, bocciofile, giornali, per il sospetto che vi si facesse propaganda fascista, che si preparassero attentati.
Fort Missoula, annomato «Bella vista» dagli internati, in un’amara ironia dettata pure dal mirabile panorama che offriva agli occhi, era un’ampia area recintata con barriere di filo spinato e aveva torrette di guardia con militari armati. Dentro, tre palazzi eleganti, a tre piani, bianchi, con i tetti a falde. E le lunghe file delle baracche di legno dei prigionieri, a una elevazione, a sei posti letto, a due o tre quelle degli ufficiali. Dignitose. Meglio dei ricoveri di fortuna, spesso debordanti con una moltitudine per stanza, della prima ondata d’emigrazione, nelle varie Little Italy, tra fine Ottocento e primo Novecento. Formavano due blocchi quadrati, di stecche parallele, separate da stradine. E avevano spazi capienti, con le brandine, scaffali, sedie e, per ciascuna postazione, un tavolino e il comodino con la lampada. C’erano l’acqua corrente e i riscaldamenti. Il pavimento era di legno duro. Le pareti erano foderate con cartone isolante per proteggere dal freddo – la valle era a quasi mille metri d’altezza – e dal caldo. C’erano la cucina e il refettorio – con la paga per i cuochi e per quelli che servivano ai tavoli, da dodici sedute -, la lavanderia, la biblioteca, il servizio postale, la cappella. E un campo di calcio, spazi ricreativi.
Fuori del recinto, l’ospedale, un edificio a due piani, con quattro spicchi di tetto di tegole e un lungo porticato sul davanti. Il vitto era buono e abbondante. All’interno, si era liberi di muoversi. E di giorno si poteva uscire per un lavoro, retribuito, nelle industrie per la produzione dello zucchero. In più, l’americanata di consentire ai fascisti d’indossare in ricorrenze particolari la camicia nera, fornita da quelli del campo stesso, e di poter svolgere morigerate manifestazioni di fede. Insomma, non si stava male, pur nella consapevolezza che sempre di restrizione si trattava e che il viaggio per giungere lì era avvenuto con treni speciali, in una certa rassomiglianza con quello degli ebrei avviati ai campi di sterminio, per le carrozze ferroviarie piombate e con le sbarre ai finestrini, per le poltrone sacrificate allo spazio, che comportò di dover dormire distesi sul pavimento. Le uniche proteste, quando mancarono gli spaghetti e l’olio d’oliva. Nulla, comunque, al confronto con i gironi infernali dell’internamento di tedeschi e giapponesi, pur nati lì – su questi ultimi, «una vipera nasce vipera ovunque sia stato deposto l’uovo» titolò il Los Angeles Times.
Dalla costa Est, poche le deportazioni. Ci incapparono i marinai e i passeggeri di una nave da crociera sorpresa in un porto della Florida e gli equipaggi di 28 mercantili, o alla fonda o in acque territoriali americane, che furono prima rinchiusi a Ellis Island e poi trasportati a Fort Missoula o a Petersburg in Virginia. Molte da quella Ovest, per lo più pescatori che approvvigionavano il 90% del pesce della California e la cui prigionia comportò il tracollo del settore. Subirono anche il sequestro dei pescherecci.
Per i più non durò fino all’armistizio: la necessità dell’appoggio degli italoamericani per l’invasione della Sicilia indusse alla liberazione anticipata o alla concessione di permessi. I fascisti furono invece trattenuti.
Dopo, parecchi decisero di fermare lì le loro vite. E fu una piccola emigrazione che si aggiunse alla blanda precedente, spostatasi lì per lavorare nelle miniere di rame di Walkerville e di Boise, in quelle di carbone di Lodge, Belt, Roundup, Butte e che, seguendo la tradizione di casa nostra, aveva fatto atto di richiamo per i congiunti, ricomponendo la famiglia – nel 1910 gli italiani, minatori e agricoltori, erano 7845, di cui 1253 nati lì. In precedenza, nel 1841, erano arrivati missionari cattolici per convertire gli indiani Cheyenne, Crow, Piedi Neri. Oggi c’è in Montana una popolazione con origini italiane stimabile intorno alle 40/45 mila unità, su poco più di un milione di abitanti.
Lo Stato della California di recente ha chiesto scusa per gli internamenti. Non il Governo centrale. Che lo fece per i giapponesi, rimborsando la detenzione con oltre 20 mila dollari a testa.