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 2019  giugno 02 Domenica calendario

Tienanmen, parla Han Dongfang

Han Dongfang è diventato quasi per caso un leader durante la protesta di Tiananmen, quando fondò la Federazione Autonoma dei Lavoratori di Pechino. Dopo l’arresto, il carcere, la malattia, la fuga e le cure in America, da 27 anni vive a Hong Kong, dove ha fondato il “China Labour Bullettin”, che ogni giorno racconta le storie delle lotte per i diritti dei lavoratori nella “fabbrica del mondo”. Nel trentennale di Tiananmen ne parla con La Stampa dal suo ufficio di Kowloon a Hong Kong.
Sono passati trent’anni dalle proteste di Tiananmen. Cosa c’entrava un elettricista con la protesta studentesca?
«Il mio coinvolgimento a Tiananmen è stato assolutamente casuale. A quel tempo lavoravo come elettricista nella compagnia ferroviaria di stato (China Railways ndr). Dopo quattro settimane di lavoro, ci veniva concesso un periodo di pausa di venti giorni. Durante uno di quei momenti ero a Pechino su un bus con Chen Jingyun, la mia ragazza (che poi divenne mia moglie). A un certo punto notammo che migliaia di giovani si stavano dirigendo verso Piazza Tiananmen e Chen, che era molto curiosa mi propose di andare a vedere cosa capitasse. Io ero contrario, volevo andare a casa, ma alla fine le dissi “ok, ma solo per mezz’ora”. Ecco, quella mezz’ora cambiò la mia vita».
Ci racconti cosa successe dunque dopo quella prima mezz’ora.
«La protesta cresceva giorno dopo giorno e ne fui totalmente coinvolto. Venni eletto nel comitato organizzatore della protesta e cercai di organizzare un primo sindacato indipendente (La Federazione Autonoma dei Lavoratori di Pechino, ndr)».
E fu allora che venne soprannominato il “Walesa cinese”?
«No, no... La mia storia non è minimamente paragonabile alla sua. Lui era un vero leader sindacale che ha guidato le lotte dei lavoratori portuali a Danzica, la sua esperienza nacque nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro. La mia storia nasce in una piazza piena di giovani, di speranze, di voglia di cambiamento, e io provai soltanto a ricordare in quella piazza le ragioni dei lavoratori, in anni in cui era impensabile soltanto immaginare di organizzare uno sciopero in un luogo di lavoro».
Cosa successe dopo la repressione della protesta di Tiananmen?
«Avevo 26 anni ed ero molto naïf, la mia foto venne pubblicata su tutti i giornali e divenni un ricercato, scelsi di non fuggire e mi consegnai spontaneamente alla stazione di polizia, andandoci con la mia bicicletta, pensando di poter far valere le mie ragioni. Andò diversamente da come avevo pensato. Venni incarcerato, mi ammalai in carcere di tubercolosi e dopo 22 mesi di detenzione senza processo venni liberato solo grazie alle molte pressioni internazionali. Era l’aprile del 1991. Passai un anno negli Usa a curarmi e iniziai a riflettere sul mio futuro: non avevo studiato ed ero solo un semplice elettricista, non parlavo praticamente una parola d’inglese. Decisi quindi di ripartire da quella piazza che mi aveva coinvolto quasi per caso e pensai che la mia missione fosse quella di occuparmi dei milioni di lavoratori cinesi senza diritti. E non potevo certo farlo da New York!».
Quindi è tornato in Cina?
«Sì, provai a rientrare in Cina nella città di Guangzhou, ma fui arrestato nuovamente e subito espulso ad Hong Kong, dove vivo da allora».
Come si è occupato in questi anni delle lotte dei lavoratori in Cina?
«Ho fondato il China Labour Bullettin, che da 25 anni svolge un monitoraggio degli scioperi e sostiene attivamente le attività di contrattazione sindacale all’interno della Cina. Mi occupo quindi dell’organizzazione sindacale dei lavoratori cinesi nella cosiddetta “fabbrica del mondo”. In questi anni abbiamo osservato le varie fasi dello sviluppo economico cinese, a partire dagli anni ‘90 quando furono riformate le imprese di stato con massicci licenziamenti. Abbiamo osservato il progressivo declino dei sindacati ufficiali che non erano in grado di tutelare i lavoratori e il crescere delle prime proteste spontanee. Poi all’inizio del 2000 la forte urbanizzazione e l’aumento esponenziale degli investimenti immobiliari, ha creato un mercato estremamente frammentato, con catene di subappalti e ritardi cronici nel pagamento dei salari: tre-sei mesi, a volta anche un anno di ritardo nel pagamento degli stipendi. Alcune imprese del settore edilizio pagano i dipendenti solo una volta all’anno prima del Capodanno Cinese. Osservando la “Mappa degli Scioperi” (vedi cartina n.d.r) potrete notare come ogni giorno si registrano scioperi e proteste in tutto il Paese nelle fabbriche, nei cantieri edilizi, nel settore delle infrastrutture stradali e ferroviari. Nel 2018 abbiamo registrato 1.700 scioperi e rivolte spontanee in tutta la Cina (contro 1.250 nel 2017) e solo nei primi 5 mesi del 2019, sono già più di 600 le proteste. L’80% dei casi riguarda salari mai pagati o pagati con molto ritardo, ma stanno crescendo le proteste per la poca sicurezza e incidenti sul lavoro, per la richiesta di aumenti salariali, di maggiori garanzie sociali e più welfare. Se penso alla Cina di oggi rispetto a quella 30 anni fa, credo che lo spirito dei lavoratori cinesi e la voglia di far valere i propri diritti sia oggi molto più forte di allora».
Si intravede qualche spiraglio? La situazione sta migliorando?
«In Cina non c’è ancora alcuna libertà di associazione e dunque non vi sono i diritti sindacali che conoscete in occidente (la contrattazione collettiva, ecc…). Il nostro lavoro all’interno della Cina è esattamente focalizzato su questo: da un lato far conoscere al mondo le lotte dei lavoratori, dall’altro aiutare i lavoratori cinesi ad organizzarsi, eleggere propri rappresentanti, sostenere le trattative. Suggeriamo sempre che sia meglio trattare prima di scioperare e magari di farsi arrestare».
Il modello cinese del “capitalismo senza democrazia” lega la propria stabilità alla crescita economica. Ora con il rallentamento della crescita il modello sembra non funzionare più?
«La mappa degli scioperi e delle rivolte dice che oggi abbiamo la migliore opportunità dal 1949 di ottenere risultati concreti e migliorare i diritti dei lavoratori. Come dicevo prima questo modello economico non funziona più: pagamenti arretrati fino a un anno, un sistema assurdo di subappalti con le aziende della catena più bassa che spesso rimangono senza fondi e non pagano più nessuno; corruzione diffusa. Il rallentamento della crescita, la guerra commerciale con gli Usa stanno spingendo molte aziende a delocalizzarsi fuori dalla Cina alla ricerca di lavoro ancora più economico. C’è un dramma sociale in corso, con centinaia di suicidi documentari fra i lavoratori e spesso anche azioni violente e irrazionali contro i datori di lavoro. E poi l’aumento degli incidenti sul lavoro. I dati parlano chiaro: nel 2018 abbiamo registrato 542 incidenti gravi con migliaia di morti sul lavoro in tutta la Cina, prevalentemente nel settore delle costruzioni e nelle miniere. Il mese scorso ci sono state molte esplosioni e incidenti in diverse fabbriche del settore chimico e questi episodi riducono la credibilità del regime».
La Cina di Xi Jinping si presenta al mondo come un partner economico globale, con grandi investimenti all’estero, la Nuova Via della Seta. Cosa ne pensa?
«Se si dà uno sguardo ai social media cinesi, cresce di giorno in giorno la richiesta al governo di ridurre gli investimenti all’estero per concentrarsi sulla qualità della vita nelle campagne e nelle città, per estendere la protezione sociale delle fasce più deboli, per migliorare il sistema educativo a fronte di una classe media indebolita e con un divario crescente fra ricchi e poveri. Ciò detto, non mi sento di criticare il progetto della Via della Seta, anzi ne auguro ogni bene e siamo disponibili a dialogare con i lavoratori dello Sri Lanka o con quelli italiani per far valere i loro diritti, conoscendo noi molto bene gli investitori e le imprese cinesi».
Cosa direbbe a un’azienda italiana o europea che volesse investire in Cina?
«Io auspico che sempre più aziende europee investano in Cina con nuovi stabilimenti produttivi: più lavoro, significa più opportunità, più relazioni internazionali, più scambio di conoscenze e di esperienze».
Qual è il suo prossimo impegno?
«Non ci crederà, ma è l’India. In questi anni abbiamo costruito moltissime relazioni con i lavoratori indiani. Cina e India sono insieme il più grande serbatoio di manodopera mondiale e possiamo imparare molto l’uno dall’altro. Nelle fabbriche di Bangalore e di Shenzhen si condividono le stesse aspirazioni per un salario e un welfare dignitoso, e quelle forme di tutela sociale che possano rendere più serena la vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Da lì possiamo ripartire. Oggi la mia mano sinistra è in Cina e quella destra è in India».
La democrazia in Cina è possibile?
«Sono ottimista e un futuro democratico in Cina credo sia inevitabile. Penso ai tanti anni che ci sono voluti in Europa e in tutto il mondo per affermare lo stato di diritto e credo che le tante rivolte spontanee e gli scioperi che scuotono la Cina oggi siano un indicatore chiaro del cambiamento che è già in atto».