Corriere della Sera, 2 giugno 2019
La finta di Garrincha. Intervista a Olivier Guez
Parigi All’inizio del Ventesimo secolo il Brasile sogna di essere un Paese bianco, avanzato, europeo come la Gran Bretagna allora potenza egemone nel mondo. Le élite di Rio giocano a cricket e a calcio, importato nel 1894 dall’inglese Charles Miller, e i club non tollerano la presenza dei neri, né in campo né in tribuna. Alcuni mulatti provano a farsi passare per bianchi cospargendosi di polvere di riso, altri si lisciano i capelli. Sono i primi stratagemmi, le prime finte elevate poi ad arte dal dribbling, la grande metafora della società brasiliana e di un certo modo di affrontare la vita. In Elogio della finta (appena pubblicato da Neri Pozza) Olivier Guez – vincitore del Prix Renaudot con La scomparsa di Josef Mengele – parla di Garrincha, Pelé, del dribbling, della bossanova e di sé stesso.
Perché il libro comincia con i funerali di Garrincha?
«Perché è il simbolo di un’epoca totalmente scomparsa del football, nella quale i grandi giocatori ancora giocano soprattutto per il piacere, e Garrincha è forse quello che più incarna questo dilettantismo, fino alla stupidità».
Che giocatore era?
«Assenza totale di professionalità e di visione di carriera. Gioca ad altissimo livello ma come un bambino in cortile, a lui piace dribblare, tutto lì. Vince due coppe del mondo ma non conosce neppure le regole dei tornei. È una specie di “sex machine” che farà tredici figli in giro per il mondo. E un calciatore straordinario».
Garrincha è un «malandro»?
«No, perché dribblava ma gli mancava la furbizia che invece è una caratteristica decisiva del “malandro”. Che è un tipo che si veste bene, seduce donne belle e ricche, frequenta i grandi ristoranti anche se è senza soldi, è una specie di bandito, ma un bandito intelligente».
Chi sono allora nel calcio i «malandri»?
«Gli altri dribblatori, che flirtano con la linea del fallo laterale, che rispettano le regole ma talvolta anche provano ad aggirarle per ingannare l’avversario. Pelé era un malandro. Ce ne sono stati molti, Ronaldinho è stata l’incarnazione perfetta del malandro, che flirta con le discoteche, le donne, il genio. Oggi lo è Neymar, con i suoi capricci da dribblatore e il fatto che al Paris Saint-Germain fa quel che vuole senza ascoltare la società: questa è una cosa che da tifoso dello Strasburgo mi fa molto divertire».
Perché ha messo nel titolo del libro la finta piuttosto che il dribbling?
«È un omaggio a un libro e a un film che amo molto, Elogio della fuga di Henri Laborit e Mio zio d’America di Alain Resnais. Poi “finta” è una parola più letteraria di “dribbling”, che resta confinato al calcio. “Finta” va molto più lontano, evoca sfuggire, ingannare, raccontare una menzogna. E quando ho scritto questo libro, cinquesei anni fa, vivevo in una forma di finta. Questo forse è il mio libro più autobiografico, tra le righe».
Quasi un’autobiografia
Parlo di finta perché questo termine evoca la fuga, l’inganno, e racconta una menzogna. Quando l’ho scritto vivevo anch’io in una forma di finta
Quindi lei si sente un «malandro»?
«Certamente lo sono stato. Ero soprattutto attirato da quella figura ma un po’ lo ero anche io. Quando sbarchi da Strasburgo a Parigi a vent’anni e non conosci nessuno, sei obbligato a essere un “malandro”, non ne puoi fare a meno. Bisogna cercare di sedurre, di piacere, e aggirare gli ostacoli perché chi è già dentro non ha nessuna voglia di farti entrare. Esattamente come il giocatore che dribbla, che in partenza è più piccolo e debole dei suoi avversari e trova il modo di superarli. Sono stato un ragazzo un po’ ambizioso, un po’ “malandro”».
Il calcio è anche il pretesto che le serve per parlare del Brasile.
«Adoro l’America del Sud da tempo, in particolare il Brasile, e adoro il calcio. Nel 2013, prima dei campionati del mondo di calcio, sono stato un mese a Rio ed è stato uno dei momenti più belli della mia vita. Del calcio amo il gioco, la partita pura e semplice, e anche il fatto che racconta la storia di una società. Dal razzismo inflessibile degli inizi agli anni Venti e Trenta quando si fa strada l’idea di società multicolore, fino agli anni Cinquanta, quando nello spazio di qualche settimana il Brasile costruisce l’immagine che lo accompagnerà fino a oggi. Succede tutto tra giugno e luglio 1958. Il Brasile diventa il Paese del calcio vincendo i mondiali di Svezia nel 1958, e qualche giorno dopo esce la prima canzone di bossanova, Chega de saudade. E poi il cinema novo, Brasilia di Kubitschek e Niemeyer, in due o tre anni il Brasile – che era fino a quel momento una nazione complessata, senza direzione e dall’identità incerta – all’improvviso diventa una specie di Paese delle meraviglie, il Paese del godimento, della bellezza, dell’eleganza».
Prima di quell’esplosione, alcune pagine sono dedicate alla figura di Arthur Friedenreich, la prima leggenda del calcio brasiliano.
«“La tigre”, 1.329 gol, mulatto dagli occhi verdi e la pelle bianca del padre immigrato tedesco ma i capelli inequivocabilmente crespi della madre nera. Grazie a lui il Brasile ha vinto la sua prima Coppa America nel 1919. Ma prima delle partite stava ore a lisciarsi i capelli per non farsi scoprire, entrava in campo sempre per ultimo e qualche volta in ritardo».
Ha molta nostalgia verso quel calcio rispetto al football contemporaneo?
«Sì e no, io sono un tipo molto nostalgico ma in una forma gioiosa, che non mi appesantisce troppo. Nostalgia per la dimensione ludica, innocente di quel calcio, ma allo stesso tempo non si è mai giocato così bene come oggi. Quando guardiamo il livello di certi match della Champions League o della Coppa del mondo è davvero incredibile. Veloce, tecnicamente eccezionale».
Alla fine del libro c’è un piccolo dizionario di «street art» con le figure del calcio di strada brasiliano.
«La pedalada, l’embaixadinha, la foca, il drible de vaca… A Rio de Janeiro trascorrevo ore a guardare la gente che giocava sulla spiaggia e ho voluto codificare le mosse principali. Il mio dribbling preferito è l’elastico, il doppio contatto inventato da Rivelino e portato al massimo splendore da Ronaldinho, sul campo e in discoteca».