Corriere della Sera, 2 giugno 2019
Intervista a Matilde Bernabei
Matilde Bernabei, cosa ha pensato, saputo della nomina a Cavaliere del Lavoro?
«Ho realizzato che ho un grande avvenire dietro le spalle. Ho ripensato a quando, a 26 anni, nell’80, in Montedison, ero già responsabile della divisione per creare posti di lavoro nel Mezzogiorno. Su 2.500 dirigenti, io ero la più giovane e l’unica donna».
E gli altri 2.499 come l’avevano accolta?
«Molti non credevano in me, ma io avevo un senso gioioso nello scoprirmi attiva nella vita e riuscii a convincere i migliori di loro».
Fra i 25 Cavalieri appena nominati dal presidente della Repubblica c’è anche Matilde Bernabei, 65 anni, da 44 sposata con Giovanni Minoli, cofondatrice della Lux Vide, che dal 1992 ha prodotto oltre mille ore di fiction di prima serata. Tutto inizia perché suo padre Ettore, che era stato uno storico direttore generale della Rai, poi mancato nel 2016, sognava di trasformare in fiction l’intera Bibbia, ma non trovava un produttore. Era un progetto ambizioso. Troppo. «All’ennesimo rifiuto, ci siamo detti: facciamo noi una società», ricorda ora Matilde, «lui era in pensione e oggi devo ringraziare quel signore che, a 70 anni, decise di farsi imprenditore con la figlia». Dopo il Progetto Bibbia (undici miniserie vendute in 144 Paesi, un Emmy Award vinto), sono arrivate altre 126 produzioni di successo. Oggi la Lux Vide ha quattro teatri di posa, 50 dipendenti e arriva a impiegare sui set cinquemila persone all’anno. In principio, Matilde si era laureata in Filosofia, voleva fare la giornalista, a 18 anni scriveva per Panorama e studiava. Racconta: «Poi, fra i 20 e i 25, ho lavorato in una Ong che aiutava gli africani a creare piccole imprese, a 33 ero amministratore delegato del Messaggero. Ripensandoci, mi accorgo che tutti i lavori li ho fatti con lo spirito di migliorare un po’ il mondo. Anche le serie della Lux hanno sempre protagonisti capaci di portare una speranza».
Che bambina è stata?
«Una bimba con molto senso del dovere, perché mia madre aveva problemi di salute, io ero la prima femmina dopo due maschi, eravamo in otto, e sentivo una grande responsabilità verso i miei fratelli e mio padre. Già a 10 anni, se il babbo doveva comprare la lavatrice, si faceva accompagnare da me. E da ragazzina tenevo il doposcuola nelle baraccopoli del quartiere Fleming, a Roma».
C’entrava l’educazione cattolica, essendo suo padre notoriamente democristiano, descritto come difensore della fede, celebre per aver messo i mutandoni alle gemelle Kessler?
«Il babbo ci ha lasciati liberi sia rispetto alla fede che alla politica. Per esempio, io non ho mai votato Dc. Negli anni, tanti si sono rimangiati le cose dette su di lui, che ormai è invece ricordato per avere creato, fra il ’61 e il ’74, una Rai leader in Europa, ricca a livello culturale, che aveva dai teleromanzi, a Tv Sette, a Studio Uno e tantissimi show su cui ancora vive Techetechetè».
Le serie della Lux parlano spesso di santi ed eroi positivi. In questo, quanto conta l’ispirazione cristiana?
«Aiuta a dare un senso al lavoro che faccio. Mi considero un’aspirante cristiana perché l’errore è sempre in agguato, ma sono anche laica. Nei Medici, c’erano Papi terribili e li abbiamo raccontati e, ora, lavoriamo a una serie per Sky, Diavoli, che definisco trasgressiva, perché fa capire come la finanza, ormai, sia sopra ogni cosa: sopra la politica, sopra l’informazione. I nuovi committenti richiedono progetti più scapigliati, devi fare prodotti che funzionino per domani e dopodomani».
Suo padre diceva «il violento non va mai rappresentato come un ganzo», lei che limiti si pone?
«Il male va rappresentato, ma non come ganzo, non ci si può compiacere della crudezza e bisogna dare sempre una speranza e una soluzione possibile. Per scrivere con questo spirito servono menti molto creative, perciò abbiamo investito tanto sulle persone: abbiamo venti story editor fissi, esclusive coi migliori sceneggiatori, siamo fra i pochi in Europa con delle “squadre di scrittura” che lavorano su concept, format, soggetti e sceneggiature anche per anni, prima che si arrivi sul set».
Il prodotto di cui va più fiera?
«Sono stata io a volere fiction con storie contemporanee ed eroi del quotidiano, come Don Matteo con Terence Hill, che è alla dodicesima serie, e che si sono rivelate leader negli ascolti e attrattive anche per i giovani. Mi piace portare protagonisti impegnati a fare del bene sul loro territorio, ognuno nel suo piccolo».
Quale intuizione si riconosce?
«Sono stata precursore dell’internazionalità e della lunga serialità, solo ora consacrate da piattaforme come Netflix e Amazon, mentre molti produttori di cinema adesso vogliono fare le serie, che quando ho iniziato io non faceva nessuno. Ai tempi, convincere un grande attore a girare per la tv era un’impresa».
Il primo fu Richard Harris, quello di «Un uomo chiamato cavallo».
«Era famosissimo. Fu per il primo film della Bibbia, Abramo. Io e mio padre andammo a New York e ci installammo in un albergo vicino al suo. Il suo agente ci aveva detto che non voleva neanche incontrarci. Stavamo per partire senza averlo visto, ma una nevicata bloccò gli aeroporti. Io e il babbo ci avviammo a piedi sotto la neve verso il suo hotel, riuscimmo ad arrivare alla sua stanza. Lui ci guardava con questi occhi azzurro ghiaccio, molto prevenuto. Gli raccontammo come immaginavamo Abramo. Disse “mi ricorda molto le storie che raccontava la mia nonna cattolica irlandese. Lo faccio”».
Più di recente, come ha convinto Dustin Hoffmann a fare «I Medici»?
«Con mio fratello Luca, che si è unito alla Lux nel ’94 ed è un bravo amministratore delegato, scoprimmo che festeggiava trent’anni di matrimonio e organizzammo un viaggio in Italia per lui, la moglie e i figli».
Il cognome l’ha aiutata o ostacolata?
«All’inizio, ostacolata. Quando presentammo il Progetto Bibbia al Dg Rai di allora, lui rispose “ma vi rendete conto del putiferio se facessi una serie con i Bernabei? Andate all’estero, poi si vedrà”. Fu così che i primi finanziamenti li avemmo dagli americani e non dalla Rai. Iniziò un’avventura imprenditoriale che è sempre stata da Davide contro Golia. Con Luca abbiamo sempre combattuto con grandi produzioni americane che ai broadcaster presentano già la puntata pilota girata. Noi abbiamo puntato sulla squadra, che ha un’età media di 30 anni, molte sono donne. Con i successi avuti abbiamo incrementato significativamente il fatturato. Ma da quando faccio l’imprenditrice, sono tornate le notti insonni».
Quando erano cominciate?
«Quando, a 33 anni, fui nominata da Montedison amministratore delegato del Messaggero. Il sindacato fece subito uno sciopero, tanto per dare una prova di forza, io non dormii per notti e notti, mi chiedevo “ce la farò o no?”. Spesso Giovanni mi ha aiutato a vedere in me la forza di resistere che in certi momenti non vedevo. Fra i 20 e i 30 avevo vissuto tutto come un gioco, lì iniziò il senso di paura e di incertezza su di me, che mi è tornato davanti alla responsabilità di produzioni, come i Medici, che possono costare 25 milioni di euro. Però io, di carattere, lancio sempre il cuore oltre l’ostacolo e poi, piena di paura, me lo vado a riprendere».
Il cuore l’aveva lanciato in avanti anche a vent’anni, quando si era sposata, continuando a studiare e lavorare.
«Frequentavamo, in un garage sull’Ostiense, le messe di don Franzoni, che era di sinistra e fu sospeso a divinis. Scoprimmo un patrimonio di interessi e di valori comuni e nacque la scintilla. Poi, l’amore è l’amore e funziona nel riconoscere uno nell’altro il compagno della vita».
Come dura un matrimonio per 44 anni?
«Riscoprendo sempre il desiderio, alla fine, di riscegliersi. Non è banale, perché abbiamo avuto possibilità di avere altre vite, altri amori. Poi, però, ti accorgi che se usciamo a cena la sera abbiamo sempre mille cose da dirci o da condividere e il piacere di farlo. Giovanni ha una grande umanità ed è una delle menti televisive più importanti degli ultimi 40 anni per i programmi e i format di successo che ha inventato. Per esempio, con la soap Un Posto al Sole, ha creato la lunghissima serialità che neanche io ho mai fatto».
Lei come ha conciliato famiglia e lavoro?
«Sono uscita di casa che non sapevo cucinare un uovo e non avevo aiuti, ma la sera avevamo anche venti persone a cena: ho sempre avuto la gioia di condividere vita e idee con gli amici, erano gli anni Settanta e si respirava il desiderio di cambiare la società. Il peso della famiglia non l’ho mai avvertito. Ho potuto avere solo una figlia, Giulia, straordinaria, che ha avuto tanto amore e ne ha restituito il doppio: ha creato una Onlus, la Co2, che ha già aiutato 50 mila ragazzi con un progetto sull’educazione alla legalità. È mamma ed è la cosa più bella che ho contribuito a realizzare nella vita».
Da nonna, lei come se la cava?
«Giulia ha due bimbe, di 6 e 8 anni, e siamo un quartetto di donne che stanno molto insieme. Con loro e Giovanni siamo appena state ai concerti di Fiorella Mannoia e Paola Turci. Mi piace essere una nonna scapigliata nei progetti che porto avanti, come nella vita».
La prima nipote si chiama Matilde.
«Mia figlia e mio genero Salvo mi hanno detto “ci piace il nome e ci piacerebbe che ti assomigliasse”».