la Repubblica, 2 giugno 2019
Lello Arena ricorda Massimo Troisi
Periferia di San Giorgio a Cremano, un colpo di citofono nel pomeriggio di un Ferragosto lontano. «Era Massimo che mi chiedeva se poteva salire. Il mio grande rimpianto è di non essere tornato io a bussare da lui, quando era all’apice del successo: celebrato ma forse solo». Lello Arena è l’amico d’una vita. Da venticinque anni viene chiamato per ricordare Massimo Troisi nell’anniversario della scomparsa. Ma davanti alle immagini dell’attore che scorrono sullo schermo – la inconfondibile gestualità, il silenzio interrotto dalla parola smozzicata – non sorride mai. Forse perché il lungo sodalizio artistico – insieme nella Smorfia con Enzo Decaro, e insieme in molti film di successo – è solo una parte della storia, quella più raccontata. Il primo ricordo di Troisi. «Un minuscolo teatro nella parrocchia di Sant’Anna. Io militavo nell’Azione Cattolica e mi divertivo a mettere in scena pezzi della tradizione napoletana. Un giorno s’ammalò l’attore che doveva fare il salumaio in una farsa di Petito. Una particina in due battute. E chiamammo questo ragazzo che era conosciuto a San Giorgio per un fatto: faceva ridere qualsiasi cosa dicesse, mentre lui voleva essere preso sul serio». Una comicità involontaria? «No, una disperazione. Massimo era portatore di una diversità che se non si fosse riversata nel teatro sarebbe diventata follia o sperdimento». Come si manifestò? «In scena doveva elencare i salumi contenuti nella gerla. Ma lui cominciò a chiedere in quale ordine preciso andavano detti: se prima la soppressata e poi il mozzariello, o viceversa. Ma fai come ti viene, gli dicevo. Invece lui insisteva con quel suo perfezionismo ossessivo che sarebbe diventato proverbiale. Già durante le prove la gente moriva dalle risate. E lui restava incredulo. Ma non aggio capito, chist’è teatro ? Presto avrebbe capito: il palcoscenico era il posto per lui». Che cos’era la sua straordinarietà? «La diversità dei geni. Penso ai bambini “indaco”, quelli che esprimono energia e creatività nei modi più imprevedibili. Io da maestro elementare sapevo riconoscerli. E sapevo che il talento richiede uno sfogo, perché altrimenti diventa pazzia o infelicità». Era malinconico Troisi? «No. Per Massimo la vita era un gioco. Un gioco da fare con una serietà che sfiorava l’esasperazione, ma restava divertimento. Per un periodo abbiamo anche vissuto insieme, con l’amico produttore Gaetano Daniele. Il quotidiano era un’invenzione continua, imprevedibile. Essere amico di Massimo ti cambiava la vita». Non parlava mai dei suoi problemi al cuore? «Poco. E, a parte il ticchettio della valvola di titanio, in lui niente evocava malattia. Lo accompagnai a Houston per un controllo dopo il primo intervento al cuore. Io ero la persona meno adatta a quel genere di assistenza, ma forse proprio per quello m’aveva scelto.” Stateve accuorte che mo’ chisto sviene “, diceva con l’aria di parlare inglese al medico accorso al suo capezzale per un sanguinamento. Poi io lo spronavo a muoversi per la prova dell’holter: fai le scale, muoviti. “Ma la vita mia non è accussì. Io voglio fare la vita mia, seduto a un tavolo, fermo”. Anche nei momenti drammatici, eravamo una coppia comica». La comicità era un modo per stare nella realtà o per sfuggirla? «Era un modo per rileggere la realtà, rovesciando come un pedalino tutti i luoghi comuni. Lui era capace di punti di vista straordinari, come di chi è spostato in un altro pianeta e da lì vede cose invisibili a noi comuni mortali. La risata scattava in quel momento: quando ci rivelava aspetti della vita e dei sentimenti fino quel momento ignoti». All’epoca della Smorfia, in scena improvvisavate? «In realtà c’era dietro un faticoso lavoro di scrittura. L’improvvisazione era ammessa quando il pezzo prendeva corpo nelle prove. Ma, una volta scritto il copione, nessuno di noi tre era autorizzato a farlo». Quando avete smesso di divertirvi? «Mai. Non abbiamo chiuso la Smorfia perché non ci divertivamo. Abbiamo chiuso perché il meccanismo creativo si stava esaurendo. E Massimo, che era in assoluto il più bravo, era anche quello più intransigente sulla qualità delle scelte. Temeva la mediocrità». Poi sarebbe arrivato il grande successo di “Ricomincio da tre”. La sua compagna dell’epoca, Anna Pavignano, in un bel libro pubblicato da e/o ne ha restituito lo smarrimento. Come se la popolarità l’avesse travolto. «Massimo veniva chiamato dai più grandi maestri, ma lui aveva quella delicatezza che ho raccontato: la delicatezza di chi ti viene a citofonare a Ferragosto per non disturbarti quando hai da fare. La dimensione di Massimo era quel pianeta che ho raccontato. Dopo è stato costretto dal suo talento e dalla sua genialità a cambiare registro, senza capire che la ricchezza era già a bordo». Percepiva un suo disagio? «Percepivo una sua fragilità. Poteva dire di no a Scola o a Mastroianni? Certo che non poteva. Ma Massimo era anche una persona delicata. E quando si è sensibili, si può stare anche sotto i migliori riflettori del mondo ma continuare a sentirsi soli». Perché dice questo? «Se sei in un pianeta dove gli altri non arrivano, rimani solo. Puoi pure parlare con qualcuno, ma quando rientri lassù, in quel posto bellissimo dove vedi le cose che gli altri non vedono, sei molto solo. Penso che la dimensione del lavoro di gruppo, come è stata la Smorfia, l’abbia aiutato a scendere da questo paradiso di solitudine, facendolo maturare anche come solista». Poi che cosa è successo? «Credo che abbia sperimentato la felice consapevolezza di essere Massimo Troisi – un gigantesco concentrato di poesia, comicità, bellezza – una consapevolezza però accompagnata da una sofferenza. E qualche volta mi rimprovero di averlo lasciarlo da solo. Sarei dovuto essere più prepotente e suonare al suo citofono, come tanti anni prima aveva fatto lui: ma sei veramente felice? Io ci sono, ti voglio bene. E vaffa..., io ti faccio compagnia anche se non la vuoi». Pensava che lui non la volesse? «Ma era una cosa mia. L’errore è credere che il successo non contempli il diritto d’amore e di amicizia. E poi uno s’immagina sempre dei finali felici, mentre la vita ti mette davanti a epiloghi tragici». Non si aspettava la sua fine? «No, credevo che la sua malattia fosse più controllabile. Negli ultimi tempi non ci sentivamo più, anche se io ero informato di tutto. Ci eravamo allontanati per quei garbi che poi, nel consuntivo finale, si sono rivelati inutili sgarbi. Sono cose strane, che hanno a che fare con l’idea di gioco di cui parlavo prima. Massimo amava giocare e vincere. E l’idea che fosse circondato da persone con cui non aveva più le risorse per giocare né vincere mi metteva tristezza». I medici gli avevano detto che le sue condizioni richiedevano un trapianto, ma lui preferì girare “Il Postino”, il film che l’ha consacrato. «Credo che abbia a che fare ancora con la sua idea della vita come gioco. E che gli piacesse chiuderla con una vittoria. Fu un set molto doloroso, e alla fine deve aver realizzato che sarebbe stato impossibile tornare alle condizioni di prima, quando poteva giocare e vincere. Probabilmente quello è il momento in cui uno fa il pensiero: forse vale la pena di andare a giocare da un’altra parte». Lo sogna mai? «Sì, sogno lui che si dispera dalle risate vedendomi in difficoltà, una situazione che nella vita quotidiana accadeva molto spesso». Cosa le manca oggi? «Massimo con i capelli bianchi. E magari un Troisi junior da incoraggiare per le strade del mondo. Da ragazzi ci immaginavamo decrepiti in sedia a rotelle a recitare monologhi. E poi mi manca il suo punto di vista, sempre imprevedibile. È stato uno dei pochi a rimanere coerente». Non faceva comicità sulla politica, ma resta indimenticabile il suo Bossi che si fa la barba cantando “Tu si ’na malatia” di Peppino di Capri. «E i leghisti oggi cosa fanno, o meglio fingono di fare? Massimo anticipava le cose, come solo i geni sanno fare».