ItaliaOggi, 1 giugno 2019
No, no, il tedesco non ci piace
Ha deciso di non imparare il tedesco, il giovane somalo che aiutiamo a Berlino, e di cui ho già parlato. A. è fuggito a 14 anni, dalla Libia è sbarcato a Lampedusa, poi da Bari ha raggiunto Berlino. Ora si è sposato, in due anni ha avuto due figli, ha ottenuto un alloggio, ha iniziato un corso di apprendista falegname, di tre anni, ma dovrebbe studiare la lingua. Ha deciso di no, quindi non può imparare un mestiere. Impossibile fargli cambiare idea. È un bravo ragazzo, benché testone, vuol lavorare subito, sposta pacchi in un magazzino, tipo Amazon. Fino a quando? Il rifiuto di imparare il tedesco, sarebbe già motivo in teoria di espulsione, perché dimostra la volontà di non integrarsi. Non avverrà perché ha già famiglia.Ma come lui, la maggioranza di profughi, non vuole parlare tedesco, confidando sugli aiuti a cui pensano di aver diritto per sempre.
Lo racconta sulla Welt Wolfgang Baier, professore di tedesco come seconda lingua, autore del saggio «Allah, der Akkusativ und ich», io, l’accusativo e Allah. Come me, comincia raccontando un’esperienza personale. Il suo studente Foad, siriano di 26 anni, giunge in ritardo di due ore alla lezione, perché il bus scolastico delle 7 è stato cancellato durante le ferie. Perché non prendere quello delle 6? Io vado a letto all’una, non posso alzarmi presto, risponde il giovane. Non ci sono sanzioni per chi diserta le lezioni. Finiscono le ferie dei tedeschi, torna il bus delle 7, ma Foad arriva sempre in ritardo. Dopo l’ultima ammonizione, si presenta con un sorriso sfottente con il certificato di un medico compiacente: ha male alla schiena. Foad non verrà più a scuola.
La Germania spende un miliardo e 100 milioni per l’integrazione dei profughi (oltre al mantenimento). E 100 milioni solo per insegnare il tedesco. «Soltanto un terzo degli studenti», ha riferito il professor Baier, «riesce a superare l’esame per un tedesco base, per la vita quotidiana». Un terzo si rifiuta semplicemente di andare a scuola. Come pensare che possano trovare un lavoro?
Non è colpa solo loro. L’accusativo può essere una barriera difficile da superare. Ricordo di essermi arreso davanti alla difficoltà di spiegare a un cameriere italiano a Berlino cosa sia un dativo. I siriani vengono considerati i più preparati tra i profughi che la Merkel avrebbe scelto di far entrare in Germania (una balla che non si riesce a smentire, dal settembre 2015 entrarono tutti). Ma secondo uno studio dell’Ocse, il 70% degli studenti siriani avrebbe serie difficoltà a leggere e a scrivere e a far di conto. Di fatto, sono analfabeti.
E gli insegnanti non sono preparati, ammette Baier. Troppi profughi sono arrivati in breve tempo, un milione e centomila in 4 mesi, e mancano i professori che vengono preparati in corsi rapidi di 70 ore.
I profughi non vogliono imparare il tedesco, o non ci riescono. Poche parole bastano per cavarsela, i tedeschi sono più gentili di francesi e inglesi e non fingono di non capire se sbagli un accento. Incontreranno difficoltà enormi a loro volta anche i loro figli nati in Germania.
Il nostro giovane A. è forte e volenteroso, lavora bene, e ha cominciato a guadagnare, ma ha scoperto che se supera i mille euro al mese, dovrà pagare in parte l’affitto che era a carico dello Stato. «Allora lavoro per nulla?» mi ha chiesto. Potrebbe decidere di restare a casa e accontentarsi dei 1.600 euro di aiuti pubblici. Un problema insolubile se non si distingue un genitivo da un dativo o dall’accusativo.