Il Messaggero, 1 giugno 2019
Intervista a Luigi Lo Cascio
Chirurgo mancato (abbandonò Medicina per il teatro), sensibilità a fior di pelle e la necessità «irrinunciabile» di fare la siesta a metà giornata, Luigi Lo Cascio regalò al pubblico le prime emozioni 20 anni fa nel ruolo di Peppino Impastato, vittima di mafia, nel film di Marco Tullio Giordana I cento passi. Ora, diventato anche scrittore (il suo romanzo Ogni ricordo un fiore, Feltrinelli, sta scalando le classifiche), si racconta.
Dove ha imparato il dialetto che parla a mitraglia nel film?
«Nei quartieri popolari di Palermo: Kalsa, Ballarò, Vucciria. Io abitavo in centro ma andavo a scuola in periferia dove tutti i miei compagni, almeno quelli che non abbandonavano gli studi prima del tempo, parlavano così. Per diventare Contorno mi sono affidato alla mia identità palermitana».
Quanto contano, nel lavoro, le sue radici?
«Totalmente, anche in misura involontaria. La mia voce, il mio modo di esprimermi, le mie emozioni vengono dalla città in cui sono nato, sublime e difficile, e in cui ogni strada evoca un fatto mafioso di sangue. In questo clima sono cresciuto e ho sviluppato la mia sensibilità».
Quando ha deciso di fare l’attore?
«Relativamente tardi, mentre studiavo Medicina. A recitare non pensavo proprio: mio zio era il grande attore Luigi Maria Burruano (scomparso due anni fa, ndr) e competere con il suo carisma era per me impensabile. Facevo però teatro di strada per racimolare qualche soldo e seguire in trasferta i tornei di atletica, la mia passione. Ci presi gusto e quando, a 22 anni, venni accettato all’Accademia, lasciai il tavolo operatorio per la scena».
Ma il successo è venuto grazie al film di Giordana.
«E per me Impastato, l’attivista assassinato nel 1978, è molto più di un personaggio. Frequento la sua famiglia, non c’è giorno in cui non pensi a lui. Vengo ancora fermato dalla gente che mi chiama Peppino. E qualcuno mi ha rivelato di aver deciso di entrare in magistratura o nelle forze dell’ordine dopo aver visto il film. È proprio la condanna della mafia il fattore unificante della nostra identità nazionale».
E che effetto le ha fatto passare dall’altra parte della barricata interpretando un boss in Il traditore?
«Sono stato felicissimo di essere nel film di Bellocchio. Non si può descrivere l’emozione che ho provato girando molte scene nella vera aula del Maxiprocesso, un evento importantissimo per noi: Buscetta ha dato consistenza alla mafia che prima delle sue rivelazioni era un’entità astratta, inafferrabile. Contorno, che si dissociò da Cosa Nostra senza essere un pentito e contribuì in misura decisiva a colpire l’organizzazione, è un complemento di Buscetta di cui condivide la solitudine».
Soddisfatto della sua carriera o insegue ancora dei traguardi?
«Mi ritengo molto fortunato, grazie al cinema ho potuto fare il teatro che amo. Ora riprenderò la tournée di Dracula con Sergio Rubini, girerò un nuovo film da regista e scriverò il secondo romanzo».
Davvero fa la siesta tutti i giorni?
«Mai saltata un solo giorno della mia vita, mi ricarica. Non conosco l’orario continuato. Dopo pranzo metto il pigiama e m’infilo nel letto, al buio, anche se sto girando un film o provando uno spettacolo. L’ho fatto anche quando lavoravo con Luca Ronconi. E in casi di emergenza dormo perfino appoggiato al muro. È un’abitudine tutta siciliana che ho ereditato dal mio bisnonno».
Ma i registi come reagiscono?
«Lo sanno in anticipo e si adeguano».