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 2019  giugno 01 Sabato calendario

Garrincha e Pelè, nel Brasile non hanno main perso

Partiva a destra. Lo sapevano tutti, ma nessun difensore, ai tempi del suo splendore, con la maglia del Botafogo e quella del Brasile, è mai riuscito a impedire a Garrincha di decollare. Spostato sull’ala, affrontava uno o due «João» ‒ i difensori avversari, marionette, agli occhi del mago. Avrebbe fatto due o tre doppi passi? E quante finte, prima di sgusciare verso la linea di porta, piegato in due, come se avesse perso qualcosa? Il difensore indietreggiava, scrutava gli occhi e le gambe storte di Garrincha, scalpicciava, sconcertato. Dissonanza cognitiva: cosa seguire, la palla o il giocatore? A volte Garrincha tornava al centro per ricominciare la sua esibizione diabolica e i difensori restavano con un palmo di naso.
Olé! Garrincha era un maniaco del sesso, per di più ritardato e alcolizzato, ma fu la gioia del popolo. Si andava allo stadio come si andava al circo, per assistere ai numeri del Buster Keaton del football, campione del mondo 1958 e 1962 a fianco di Pelé. Garrincha-Pelé, tandem sbalorditivo e invincibile: il Brasile non ha mai perso quando schierava le sue due star. Da allora, nell’immaginario collettivo, il Brasile è calcio, il calcio è brasiliano, e i dribblatori le meteore di quel calcio champagne, il futebol arte. Finta/e, scatto, tiro, razzi gialli bordati di verde, pelli color caramello o cioccolato: il dribbling è l’essenza del calcio brasiliano e il frutto di una lunga storia poco nota.
Ai primi del XX secolo il Brasile ha appena abolito la schiavitù ma si sogna bianco ed europeo. Le sue élite modern style si vantano di praticare il tennis, il cricket, e si affrontano in regate sulla laguna di Rio. I loro figli si appassionano a uno sport anch’esso importato dall’Inghilterra, il calcio, le cui partite fanno accorrere gli snob, azzimati come per andare all’opera.
Ben presto il nuovo gioco diventa popolare, le sue regole sono semplici, basta un’arancia, non servono attrezzature, i tedeschi, gli italiani, sbarcati per coltivare le terre del Sud fertile, formano squadre. Proletari, borghesi, aristocratici, tutti si dedicano al calcio, anche i neri e i mulatti, ma per conto loro. Le teorie razzialistiche di Gobineau fanno furore in Brasile, il meticciato corrompe il sangue e porta alla decadenza. I primi club di calcio non tollerano giocatori né aderenti neri.
Quindi, per sfuggire agli insulti razzisti e alle aggressioni, i primi giocatori neri si travestono. Carlos Alberto, del Fluminense Rio, si incipria la faccia. Arthur Friedenreich, un mulatto dagli occhi verdi soprannominato il Tigre, il marcatore più prolifico della storia (1329 gol!), si liscia i capelli con la brillantina prima di entrare in campo.
Friedenreich sconcerta gli osservatori con le sue finte, mai viste prima. Il goleador è il re della schivata, il suo personale modo di evitare le cariche violente degli avversari bianchi, che gli arbitri non fischiano. Nasce così il dribbling in Brasile. Il giocatore nero che serpeggia e ancheggia non verrà pestato e nessuno lo agguanterà; il dribbling può salvargli la pelle.
Fantasia ed efficacia del Tigre. I dirigenti del Vasco del Gama oseranno l’impensabile, reclutare altre tigri, poco importa il colore della pelle, conta solo il talento: nel 1923 il club dei portoghesi di Rio vince il campionato carioca. Quando, dieci anni dopo, le leghe di Rio e di San Paolo passano al professionismo, il calcio brasiliano si apre definitivamente ai neri, che trasformeranno lo sport britannico in futebol. Al passaggio lungo e al gioco aereo, il noioso kick and rush, subentrano irriverenza e improvvisazioni individuali, il joga bonito, un calcio multicolore dove gli attaccanti usano le anche come lottatori di capoeira.
Il calcio si tropicalizza; contemporaneamente il Brasile intraprende la sua rivoluzione culturale. A poco a poco si assume il proprio abito d’arlecchino scoprendo la dimensione africana della sua identità. Negli anni venti i modernisti di San Paolo proclamano che la brasilianità non può essere che amalgama, indio, africano e portoghese. La rivoluzione trionfa con il saggio Padroni e schiavi (1933), esplorazione della languida soavità della casa coloniale, inno al meticciato, «sublime peculiarità» del Brasile. Gilberto Freyre narra la stupefacente miscigenação, la mescolanza in atto dai tempi della scoperta della terra di Vera Cruz da parte dei marinai portoghesi, insistendo sul ruolo dello schiavo e della schiava di colore nella vita sessuale all’interno della tenuta padronale, «grande pantano carnale».
Disprezzata per secoli, la cultura nera invade la letteratura (i romanzi passionali di Jorge Amado), la musica (il samba), la cucina (la feijoada ‒ riso bianco, fagioli neri, carni scure ‒ incarna il melting pot brasiliano) e il calcio: Leonidas, re della «bicicleta», è il fenomeno della coppa del mondo del 1938, che conclude come miglior giocatore e miglior marcatore.
Diventa l’emblema del futebol mulato. A nazione meticcia calcio fanfara, gioco ricco di ornamenti e di fioriture, riflesso dell’ethos afro-brasiliano, diverso dal calcio in prosa europeo, fisico e appassionato di schemi geometrici, metodo italiano, WM austriaco, «catenaccio svizzero».
Lo swing del dribblatore nero è il miele del futebol mulato, la cui popolarità non è sfuggita alle istanze dello Stato forte instaurato negli anni trenta dal presidente populista Vargas. Ai figli di schiavi e agli immigrati di fresca data, ai ceti popolari urbani, la squadra nazionale e le prodezze di Leonidas offrono un mezzo di identificazione con la nazione multicolore. Valorizzano il nero e il meticcio mentre il regime cerca di agglomerare le etnie composite. Il futebol riflette le peculiarità uniche del Brasile e afferma la sua identità arcobaleno.
Garrincha, Didi, Pelé; Jairzinho, Rivelino; Zico, Ronaldo, Ronaldinho, e oggi Neymar, sono i figli di questa lunga storia. Il futebol samba, le sue prodezze individuali, le sue combinazioni e le sue azioni collettive, il calcio poetico che sognava Pasolini: il Brasile lo ha offerto, di tanto in tanto, all’umanità.