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 2019  giugno 01 Sabato calendario

La donna di Nietzsche

Franz Overbeck era fra i tre o quattro veri amici di Nietzsche, gli unici che non gli dicevano né sempre «sì», né sempre «no». Per questo, il 10 gennaio 1889 lo voleva vedere morto. Come scrisse in una lettera a Heinrich Köselitz, uno degli altri due o tre (Friedrich aveva ribattezzato il musicista Peter Gast, cioè «Pietro Ospite»): «ora continua a perseguitarmi l’idea che un servizio molto migliore si sarebbe reso all’infelice se gli fosse stata tolta la vita invece di chiuderlo in manicomio, così come attualmente io non avrei altro desiderio se non che gli venisse tolta».
Giusto una settimana prima, Nietzsche a Torino era precipitato nel gorgo della follia, da cui uscirà il 25 agosto 1900 soltanto con i piedi in avanti, ma da cadavere, non da camminatore indefesso quale era sempre stato. Da anni, tuttavia, Overbeck, teologo «eretico» che, come abbiamo visto, non delegava solo a Dio il potere assoluto di dare la morte, aveva capito che se a portarsi via fisicamente Friedrich sarebbe stata la pazzia, insieme ad altre diffuse patologie, a condurlo alla perdizione postuma, quindi a una dannazione ancora peggiore, avrebbe provveduto una donna, la di lui sorella Elisabeth che era, per il manipolo di nicciani duri e puri, un’autentica calamità. E non di quelle naturali, bensì di quelle dolose. Il buon Franz, infatti, sapeva bene che il «Lama», come la chiamava Fritz fin dall’adolescenza, sputava a tutto andare nel piatto dove aveva mangiato a quattro palmenti, nel senso che piegava all’interesse personale suo e di suo marito Bernhard Förster, un misto di antisemitismo e colonialismo «über Alles» esportato in Paraguay, il pensiero a-sistematico, frammentario, danzante, ditirambico e improntato al «forse» del fratello. Paragonato al comportamento di Elisabeth, l’opportunismo da femme fatale dell’arrampicatrice culturale Lou Salomé, la quale per tutta la vita si tenne in perfetta forma facendo su e giù dal carro di vari maestri-spasimanti, potrebbe apparire come un genuino e tormentato percorso intellettuale.
Se aggiungiamo che per mamma Franziska il suo Friedrich restò sempre un bambinone da accudire quando possibile, e che con Cosima Wagner nata Liszt la musica non cambiava di molto, limitandosi a una moderata stima e a una andante simpatia da elargire a Nietzsche in quanto sponda filosofica utile all’amante e poi marito Richard, ne consegue (ma questo lo sapevamo fin da quando al liceo ci davamo di gomito citando da Così Parlò Zarathustra: «Vai dalle donne? Non dimenticare la frusta!» – sorvolando sul fatto che la battuta non è del profeta, bensì di una «vecchia donnetta») che, per usare un eufemismo, Nietzsche con le donne in generale non ebbe fortuna.
Eppure... Eppure c’è stato un momento in cui la vita (e poi la morte, e poi la vita oltre la morte di cui godono gli Autori con la A maiuscola) di Nietzsche avrebbe potuto imboccare una strada, anzi un sentiero, ben diverso, simile a quelli che piacevano a lui quando vagava per i monti o le colline a strapiombo sul mare, ripidi, tortuosi, permeati di silenzio, e per questo confacenti a un solitario di compagnia. Chi ce lo suggerisce? Guarda caso, proprio una donna, forse l’unica ad aver dedicato al povero Friedrich una vera e completa biografia ottimamente documentata e ben scritta, in cui i fatti si coniugano ai contenuti della sua opera. Nulla a che vedere con i libercoli propagandistici scritti dalla sorella Elisabeth dopo che s’era impadronita, per la modica cifra di 30mila marchi elargita a mammà, del lascito letterario del fratello.
Io sono dinamite dell’anglo-norvegese Sue Prideaux (Utet, pagg. 524, euro 50, traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana) non riserva né un occhio di riguardo, né occhiate in tralice alle signore delle quali tratta. Ma quando, nel quindicesimo capitolo, ci imbattiamo in Resa von Schirnhofer, sentiamo scoccare quella misteriosa (per gli uomini) scintilla chiamata solidarietà femminile. Resa, nata nel 1855 a Krems, in Austria, è messa sulle tracce di Nietzsche da Malwida von Meysenbug, salottiera e colta madrina e protettrice di tutte le intellettuali europee dell’epoca, Lou Salomé compresa. Ma dal 3 al 13 aprile 1884, a Nizza, non si consumò una fugace storia d’amore. Più semplicemente, si verificò un idillio fatto di consonanza, complicità e cultura, purtroppo rimasto un’eccezione, una goccia nel mare. Studentessa di Filosofia all’Università di Zurigo, Resa approccia Friedrich in un momento per lui felice: ha appena terminato la terza parte di Così parlò Zarathustra. La quasi trentenne studiosa e il quarantenne «caro professore quasi cieco», come lo chiamano alla «Pension de Genève», passeggiano, parlano dei fratelli Goncourt, di Saint-Simon, di Taine, di Stendhal, bevono vermut, assistono alla corrida soft, quella in cui, con sollievo per entrambi, convinti animalisti, non scorre una goccia di sangue e anzi il toro sembra quasi comportarsi come un consumato attore.
Una volta, sul Mont Boron, s’imbattono in alcune mucche al pascolo piuttosto nervose, lei s’impaurisce, ma lui, da vero uomo, tranquillizza subito la mandria agitando l’ombrello e poi... tenetevi forte, ché arriva il colpo di scena, scoppia a ridere come un matto. È la prima risata sana di Nietzsche di cui si abbia notizia, forse l’unica. Quelle dettate dalla sua mente malata, dopo il famoso abbraccio al cavallo a Torino, nel gennaio 1889, alimentano l’aura di dannazione che lo circonfonde. Questa invece la condivise in piena letizia con la Resa che avrebbe potuto essere la sua vittoria.