Cos’è stato per lei viaggiare?
«Un modo per dire grazie a mio padre, al senso che aveva dello spazio e alla frase che da bambina gli sentivo ripetere: devi conoscere un posto, ma per farlo occorre che tu ci viva».
Perché è nata a Tokyo?
«Nel 1938, per ragioni di studio, mio padre si trasferì in Giappone insieme a mia madre e a mia sorella Dacia. Nel 1939 nacque Yuki, nel 1941 io. Nel 1943 il governo giapponese, alleato di quello italiano, chiese a mio padre l’adesione alla repubblica sociale. Rifiutò e fummo internati in un campo di concentramento. Ero molto piccola, non ho ricordi diretti. Salvo l’odore bruciato della buccia di mandarino. Erano gli scarti delle guardie. Mio padre recuperava le bucce e le faceva arrostire in modo che si potessero mangiare».
Pativate la fame?
«Cercare cibo fu l’ossessione primaria. La situazione generale era durissima, aggravata dall’accanimento quotidiano delle guardie contro di noi».
Come reazione so che suo padre si tagliò un dito.
«Al culmine dell’esasperazione decise per protesta di recidersi il mignolo».
Per i giapponesi quell’atto cruento era un antico rituale samurai.
«È lo yubikiri. Che fosse un occidentale a praticarlo come gesto di sfida impressionò enormemente le guardie. Da quel momento ci trattarono con minore durezza. Nel 1945 fummo liberati e tornammo in Italia. Con i miei ci stabilimmo in Sicilia, a Bagheria, dove la mamma aveva una casa. Dacia e Yuki furono mandate in un collegio a Firenze».
Com’era Fosco Maraini nel ruolo di padre?
«Affettuoso, disordinato, divertente. Si era messo in testa di trasmettermi la passione per la montagna. Mi sottoponeva a durissime scalate. Io disperata, lui agile e determinato con lo zaino e una Leica al collo».
Fu una delle sue fidate macchine fotografiche con cui avrebbe raccontato i posti che visitava.
«Anche in questo fu abbastanza unico. Voglio dire unico per la qualità del suo lavoro sull’immagine. Ogni tanto spariva per i suoi fantastici viaggi. Parlo degli anni tra il 1947 e il 1955. Il più epico, per me bambina, fu quando tornò dal Tibet. Insieme alle solite casse di libri, ce n’era una di metallo. Quando l’aprì vidi delle corde e dei pezzi di legno. Era un letto tibetano che papà rimontò e mise nel suo piccolo studio».
E sua madre?
«La mamma frequentava gli amici con cui era cresciuta: Renato Guttuso, Enzo Sellerio, Nino Franchina. Poi i miei si separarono. Fosco tornò per un periodo in Giappone e Topazia, assecondando il suo anticonformismo, si trasferì a Roma, dove aprì in Trastevere una galleria d’arte. In quello spazio fecero le prime mostre romane Kounellis, Pascali, Manzoni».
Che impressione le faceva quel loro continuo agitarsi?
«Erano persone stravaganti. A un certo punto decisi di andare a vivere a Firenze e scrissi al nonno perché mi ospitasse. Volevo sottrarmi ai tumulti familiari. Fu un gesto non di ribellione ma di responsabilità nei riguardi della mia vita futura».
Come immaginava questa vita?
«Dovevo darle un ordine che mi corrispondesse. Quando si esce dall’adolescenza e il mondo ti sembra a portata di mano, quando hai la sensazione che tutto sia possibile, arriva il momento in cui devi scegliere. Compresi che non potevo appoggiarmi alla famiglia. Mio padre, uomo di talento, aveva sempre agito prescindendo dal denaro. Era uno squattrinato. Mia madre era in condizioni analoghe. Decisi che la sola strada praticabile fosse quella delle borse di studio. Grazie ad esse studiai prima a Londra e poi all’università del Massachusetts, dove mi laureai in Storia dell’arte».
Che anno era?
«Il 1964. Quella di allora era un’America fantastica: si era in piena lotta per i diritti civili, le università stavano cambiando, la poesia e la letteratura arricchivano i nostri spiriti, li addolcivano e li alleggerivano nel nome della libertà. Le tensioni non mancavano. Due anni prima Kennedy aveva parlato della grave minaccia rappresentata dall’istallazione dei missili sovietici a Cuba. Si sparse la paura di una guerra atomica. Ma tra i giovani vinse la decisione di testimoniare con forza le ragioni della pace. Tornai in Europa con questi sentimenti».
Cosa fece?
«La vita deve molto al caso. Due artisti marocchini che esponevano nella galleria materna mi invitarono a conoscere il loro paese. Mi incuriosì il loro entusiasmo, visitai quei posti e decisi di viverci».
Scoprendo che cosa?
«L’assoluta bellezza di un mondo che non aveva niente di monolitico. Le persone del luogo esprimevano la dignità e la sofferenza del loro vivere. Ma anche l’impegno contro il colonialismo che in quegli anni stava arretrando. Ricordo che mi fu offerto di insegnare storia dell’arte alla Scuola di Belle Arti di Casablanca e fu un’occasione di grande rinnovamento culturale».
In che senso?
«Fino a poco tempo prima quella scuola era sotto il protettorato coloniale e riservata ai soli europei. Insieme ad artisti e poeti del luogo promuovemmo una serie di attività culturali che decolonizzarono l’ambiente aprendolo ai giovani del Maghreb».
Lei parla l’arabo?
«Conosco quello dialettale. Negli anni in cui ho vissuto lì si parlava il francese e lo spagnolo. L’arabo dialettale era la lingua quotidiana».
Lei sostiene che quel mondo non aveva nulla di monolitico. Eppure, da noi è prevalsa l’immagine di un Islam compatto.
«Il mondo musulmano è un vasto insieme di realtà storiche, politiche, culturali, oltre che dottrinali, diversissime tra loro, da analizzare singolarmente e non come un tutto monolitico e minaccioso racchiuso nel termine Islam. Uno dei simboli più riusciti di ciò che sto dicendo è la figura di Averroè».
Al filosofo lei si richiama con un libro che si intitola appunto "Ballando con Averroè". Che cosa rappresenta per lei la sua figura ?
«Un pretesto, o meglio una guida, per i racconti di viaggio che ho scritto e che mostrano un mondo musulmano che non fa paura. Pochi sanno che Averroè morì e fu sepolto a Marrakesh il 10 dicembre 1198. Alcuni storici sostengono che in seguito il corpo fu esumato e condotto a Cordova, la sua città natale, a dorso di un mulo: in una cesta i suoi libri e nell’altra i resti del filosofo. Non so se sia una leggenda, ma è fondamentale per capire il valore da dare ai suoi studi».
Perché?
«Ha sostenuto e spiegato che la sola conoscenza di cui ci si possa avvalere è umana e non divina. Fu il più bel dono che si potesse fare dalle rive del Mediterraneo».
Questo mare non sembra più essere, almeno per noi, fonte di ispirazione e di conoscenza.
«Da anni l’Italia ha voltato le spalle al Mediterraneo, un tempo detto "culla di civiltà". Un "muro d’acqua" è stato alzato tra noi e loro. Oblio, ignoranza, malafede hanno fatto morire le politiche di sviluppo e di cooperazione. Tutto va alla deriva, come i rifugiati e gli esuli che vagano tra gli abissi del Mediterraneo e le frontiere dell’Europa».
A parte Casablanca in quali altre parti del Marocco ha vissuto?
«A Rabat, nel cui ateneo ho insegnato, e a Tangeri».
Negli anni Sessanta Tangeri fu meta di scrittori e poeti: Beat Generation, William Burroughs, Paul Bowles. Ne ha conosciuto qualcuno?
«Tangeri dopo il 1923 divenne zona internazionale gestita da una commissione di otto paesi, Italia inclusa. Fu forse un paradiso per gli occidentali ma non per la popolazione locale, in maggioranza affamata, sfruttata e ghettizzata, come ha raccontato Mohamed Choukri ne Il pane nudo. Il solo che conobbi fu Paul Bowles. Ma sia lui che gli altri scrittori del periodo coloniale cercavano in quel mondo solo scenari avventurosi per le loro inquietudini esistenziali. Forse l’unico scrittore che mostrò un reale impegno umano, culturale e politico fu Jean Genet che volle essere sepolto a Larache, a sud di Tangeri».
Sua sorella Dacia è mai venuta a trovarla in Marocco?
«Ci fu un viaggio in cui feci da guida a lei, ad Alberto Moravia e a Pier Paolo Pasolini».
Che esperienza fu?
«Ricordo che Moravia, nonostante sbuffasse spesso, aveva un carattere aperto, in grado di riconoscere e apprezzare l’importanza di certe esperienze culturali. Pasolini mi sembrò diverso».
«Mi diede l’impressione che il Marocco fosse per lui uno scenario di comparse. In realtà non viaggiava nel paese reale ma tra i propri fantasmi. Forse è questo il motivo per cui vi ambientò la Grecia arcaica e il dramma edipico in uno dei suoi film migliori: Edipo Re. Mi indignai quando scrisse che "la media dell’intelligenza tra i marocchini è bassa". Un’affermazione che rimanda più a Lombroso che a una conoscenza adeguata e libera delle persone».
Come sono i suoi rapporti con Dacia?
«Benché i nostri percorsi, studi ed esperienze siano stati assai diversi, siamo molto unite dai ricordi e dagli affetti familiari».
La infastidisce che tra voi due Dacia sia quella celebre?
«Per niente. Sono felice per il suo successo. Quando rientrai in Italia una signora mi disse: cara mia, qui c’è posto per una sola Maraini. Mi venne da ridere, poi risposi: guardi, io sono un’outsider e voglio restare un’outsider».
Cosa vuol dire "outsider"?
«Non essere mondana, non frequentare salotti, non stare sui social. La mia volontà di outsider è ciò che mi permette di vedere le cose con una certa chiarezza. È una condizione che mi trascino fin da bambina, da quando ho patito due anni di dura prigionia in un campo di detenzione. Per questo sono profondamente preoccupata per come stanno riemergendo, da un fondo di ignoranza e propaganda fasulla, fenomeni di razzismo, antisemitismo e irragionevolezza».
Ha mai pensato di tornare in Giappone?
«No, una delle mie due figlie ha girato su quegli eventi un documentario. Mi propose di accompagnarla ma rifiutai. È stato un distacco troppo doloroso. Quando partimmo ricordo i miei genitori euforici. Loro tornavano in patria. Ma io non sapevo ancora cosa fosse la mia patria».