Robinson, 1 giugno 2019
Rudolf Stingel, l’artista italiano vivente più quotato
Rudolf Stingel, al quale la Fondazione Beyeler di Basilea dedica una grande retrospettiva (fino al 6 ottobre), è un caso da studiare nel panorama dell’arte dei nostri tempi. Nonostante sia il pittore italiano vivente più importante nel mondo e l’artista che, dopo Gerhard Richter, ha riflettuto sul ruolo della pittura oggi più a fondo di ogni altro, rimane complicato definire la sua identità e la sua posizione nel mondo dell’arte contemporanea. Nato a Merano nel 1956, cresciuto fra le montagne del Südtirol, ma influenzato, avendo studiato a Vienna, dalla cultura e dall’umore mitteleuropeo. La sua prima lingua è il tedesco. Il mix non finisce qui. Alla metà degli anni Ottanta si trasferisce a New York, dove tutt’ora vive. Qui inizia la sua lunga carriera in un mondo che non si può definire soltanto americano. Infatti il mondo dell’arte di Manhattan era a quel tempo, e in gran parte lo è ancora, una nazione a parte, un pianeta autonomo con le proprie regole e il proprio microclima culturale. Stingel è e non è italiano ed è e non è americano. Sudtirolese errante un po’ come un altro famoso meranese espatriato anche lui in America agli inizi del Novecento: Ludwig Bemelmans, il creatore del famoso personaggio di Madeline la terribile ragazzina dei libri per bambini. Ai disegni di Bemelmans Stingel ha in passato dedicato una serie di quadri, un omaggio sia all’America insostituibile incubatrice della creatività, ma anche eterno altrove dove si va, si rimane, si cresce, ma dove le proprie radici non riescono mai ad andare in profondità, vittime di un incurabile nostalgia. Quando il pittore astratto Stingel arriva a New York trova una generazione di artisti e critici pseudoconcettuali che vedono la figura del pittore con sospetto e ostilità. Altri artisti della stessa generazione e nella stessa condizione di Stingel gettano la spugna o si rintanano in una pittura reazionaria e vecchia. Lui no.
Nel 1989, pur di non rinunciare alla pittura in cui crede, s’inventa un’idea che rivoluzionerà non tanto la sua arte, ma come questa verrà percepita. L’idea è un piccolo libretto arancione con istruzioni su come fare uno dei suoi dipinti. Chiunque segua i vari passaggi del libretto può creare un” vero” Stingel. La mostra di Basilea apre proprio con un grande dipinto fotorealista in bianco e nero che riproduce una delle immagini del libretto. Una mano che impugna una spruzzatrice per carrozzieri usata per ricoprire con una sottilissima pellicola di argento il colore ad olio spalmato sulla tela sul quale è stata distesa come una pelle una garza che poi sarà velocemente rimossa, lasciando incontrollabili, ma spettacolari pieghe sulla superficie. Questa solo apparente meccanicità nel creare un dipinto, questa distanza emotiva dal gesto borghese del dipingere offrono a Stingel il lasciapassare fra il mondo della pittura e quello ideologico dell’arte concettuale e masturbatoria che sopprime emozioni e impressioni. Ogni mezzo è lecito pur di difendere la pittura o, meglio, pur di salvarla dalla furia talebana delle teorie contemporanee. Il libretto delle istruzioni è un piccolo cavallo di Troia dentro al quale l’artista si nasconde per conquistare il mondo dell’arte di New York. Ma le sole istruzioni per salvare il quadro non bastano. È necessario un gesto ancora più radicale. Nel 1991, alla sua prima personale in una galleria di Broadway, Stingel non mostra dipinti, ma trasforma l’intero spazio in un dipinto, ricoprendo il pavimento con una moquette arancione fluorescente. Dipingere è il” buen retiro" di Stingel, il luogo della memoria e dello spirito dove sempre ritorna dopo aver combattuto le sue guerre contro un mondo dell’arte che non fa prigionieri e dove strategie e cinismo provano a schiacciare ogni poesia. Una delle battaglie che Stingel combatte e vince è quella con un’altra moda degli anni Novanta: l’interattività, il coinvolgimento dello spettatore nell’opera. Per farlo riveste tutte le pareti dello spazio espositivo con cellotex, materiale argentato per l’isolamento termico degli edifici. Alla Biennale di Venezia del 2003 la sua stanza così costruita viene presa d’assalto dal pubblico. Sulle pareti delicate e solo all’apparenza preziose la gente scrive le proprie frasi o attacca post- it con messaggi d’amore e di odio. Alla Beyeler una di queste pareti, ricoperta d’incisioni e graffiti, è trasformata in un grande fregio fuso in alluminio, monumento alla voce e al gesto libero e disinibito dello spettatore. Ma nel 2005 Stingel ha un’altra intuizione che lo aiuta a ritrovare l’origine della propria identità. Una serie di autoritratti dipinti da foto dove l’artista è il più delle volte in uno stato di spossatezza esistenziale disteso sopra un letto vestito. Ma più che un autoritratto è il ritratto dell’individuo occidentale decadente e decaduto stremato dalla civiltà che si è costruito attorno. A Basilea uno di questi grandi autoritratti è appesso su pareti ricoperte da una moquette sulla quale è stato stampato in bianco e nero il motivo di un tappeto orientale. Per lo spettatore è come attraversare, prima di uscire da una mostra che è un tour de force emozionante, il divano di Freud. La psicoanalisi, la melanconia, la depressione, il gesto e la memoria sono i soggetti invisibili con cui Rudolf Stingel ha lavorato e lottato in nome di una pittura e di un’arte, ora rappresentativa ora astratta, che non ha mai tradito. Duchamp diceva: «stupido come un pittore». Nel caso di Stingel diciamo: «Viva la stupidità!».