Robinson, 1 giugno 2019
Ritratto di Romain Gary
L’ingresso di un autore nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade risponde probabilmente a delle regole complesse, e non mi sembra il caso di rimproverare la casa editrice Gallimard se solo oggi ha deciso di accogliere Romain Gary nella collana. Bisogna innanzitutto ringraziarla. Ma resta il fatto che vederci entrare prima Jean d’Ormesson (da vivo), quando Gary è morto da quasi quarant’anni (nel 1980), mi ha lasciato, lì per lì, un po’ perplesso. Riflettendoci, mi chiedo se questa cosa non esprima correttamente, in fondo, il posto che Gary occupa nella letteratura francese.
Una foto di Louis Monier di metà anni ‘ 60 condensa da sola tutte le componenti del” personaggio Gary”, che va oltre lo scrittore. Abito bianco e sigaro sulle labbra, sembra assorbito nella lettura della rivista Nouvelles littéraires, che titola: «L’inammissibile Romain Gary». C’è dentro tutto.
Per cominciare, Gary fa finta di leggere: è prima di tutto in posa. È uno che si atteggia, si dirà di lui, un dilettante, disinvolto: sposerà una star della Nouvelle Vague, Jean Seberg. Un esibizionista che coltiva senza posa la sua leggenda e mente come un cavadenti sul suo luogo di nascita (Nizza, Vilnius, Kursk, una stazione russo- polacca durante la Rivoluzione russa?); sull’anno di nascita ( 1914? 1915?); su suo padre ( Ivan Mosjoukine? Lejba Kacew? Diplomatico russo? Commerciante di pellicce?). Pubblica sotto il nome di Gary, ma anche di Shatan Bogat, Fosco Sinibaldi, Émile Ajar. A cercare di sapere qual è la verità non si finisce più.
Nella foto Gary sembra felicissimo dell’aggettivo che gli viene affibbiato: «inammissibile». Un provocatore, si dirà. Uomo di sinistra, professerà un attaccamento assoluto a de Gaulle, a Malraux, il periodo del gollismo è «il suo momento della storia».
L’abito bianco, da parte sua, rasenta il dandismo. Si direbbe che abbia lo stesso sarto di Truman Capote. Il genere americano, con quel côté virile, seduttore e attaccabrighe alla Kessel, un Hemingway in sedicesimo; ha fatto la guerra come aviatore, decorato, è amico di Norman Mailer. Sulla foto si avverte che quello non può essere uno scrittore, al massimo un romanziere, un tizio che scrive delle storie, delle finzioni, dei «romanzi di avventure».
Lo strutturalismo la fa da padrone, il Nouveau Roman afferma che personaggi e trame sono morti e sepolti. Lui va controcorrente, accettato di malavoglia. È diventato francese solo a 21 anni, si dice che scrive come un immigrato. «Affondo tutte le mie radici nella mia natura meticcia. Sono un bastardo», rivendica.
Intellettualmente è un umanista. Per lui l’uomo è un ideale a venire e verso cui tendere. L’idea non è in linea con lo spirito del tempo. Se ci aggiungete le cifre, è francamente esasperante. I lettori lo adorano, le sue tirature fanno impallidire tanti. Si sa che da noi il successo è sospetto, piacere a molti è giudicato piuttosto volgare. Senza contare che fa carriera nella diplomazia, sarà console generale di Francia a Los Angeles, vicino al potere, il servilismo: Sartre non gli rivolgeva più la parola.
Quella foto di Louis Monier dice tutto quello che si può trovare di egocentrico e artificiale nel suo personaggio. Egocentrico probabilmente sì, non si diventa scrittori per eccesso di modestia. Ma artificiale sicuramente no. Gary, in realtà, non ha mai mentito e se ha sacrificato l’accuratezza è stato solo per raggiungere la verità, quella verità che solo la letteratura consente di dire.
Queste imposture avevano «un nome: questo nome si chiama autenticità» ( Europa, 1972). «Voglia di cominciare daccapo, rivivere, essere un altro, da sempre la grande tentazione della mia esistenza», spiega. «Molteplici esistenze vissute fino in fondo… aviatore, diplomatico, scrittore… Niente, zero, canne al vento, e il gusto dell’assoluto sulle labbra». Insomma, non ha mai smesso di reinventarsi.
L’ «avventura Ajar» lo dimostra bene. La storia è nota. Gary scrive sotto questo pseudonimo un romanzo magnifico, La vita davanti a sé, che vince il premio Goncourt nel 1975, nonostante avesse già vinto lo stesso premio, vent’anni prima, firmando il suo nome, per Le radici del cielo (1956).
È molto più complicato di così, ma sintetizzo perché l’elemento essenziale è un altro. Abbiamo ridotto a una soperchieria letteraria quello che avremmo dovuto vedere come il segno indubitabile del suo genio. Se si ammette che uno scrittore è innanzitutto il portatore di una lingua, allora Gary ha dimostrato di esserlo due volte.
E anche di più, perché da Lady L. agli Enchanteurs, dalla Danse de Gengis Cohn agli Aquiloni e a Chiaro di donna, è un incredibile caleidoscopio di stili, di maniere e di progetti che potrà riscoprire il lettore in questa bella edizione della Pléiade, con prefazione di Mireille Sacotte e Denis Labouret ( e accompagnata dall’eccellente Album Romain Gary, realizzato da Maxime Decout). Si potrà rileggere in particolare La promessa dell’alba ( 1960), che mette in scena la sconvolgente e imperativa ingiunzione materna al successo ( «Diventerai un eroe, un generale! (…) un ambasciatore di Francia» ) su cui costruirà la sua vita e che servirà da trampolino al suo genio letterario.
Rileggo questi romanzi e ripenso a quello che Butor scriveva di Victor Hugo: «Ci intralcia, ci malmena, ci trascina, risveglia in noi i sogni a cui avevamo creduto di rinunciare». Qui c’è tutto Gary.
(Traduzione di Fabio Galimberti. Articolo di Pierre Lemaitre pubblicato su Le Monde il 16 maggio 2019)