Robinson, 1 giugno 2019
Un saggio sulle finte e sui dribbling
Ho sempre pensato che Enzo Bearzot avesse preparato la partita Italia- Brasile del 1982 mostrando ai suoi calciatori dieci secondi del primo film di Indiana Jones, uscito l’anno precedente. Per l’esattezza la scena del duello tra l’archeologo e il guerriero nero. Per nove secondi questo manovra in modo mirabolante la scimitarra, quasi da prestigiatore, facendo presagire l’annientamento per distruzione e umiliazione dell’avversario. Al decimo secondo, per nulla impressionato, Harrison Ford estrae la pistola e lo ammazza. Ecco, l’Italia fu Indiana Jones, il Brasile quel vano artista del lampo, cancellato da un tuono. Fu un trauma, molto più forte del Maracanazo, il mondiale perso in casa con l’Uruguay nel 1950 e di quel Mineirazo che lo surclasserà, contro la Germania, nel 2014.
Lo spiega molto bene Olivier Guez nel suo Elogio della finta: «Dal disastro italiano in poi il Brasile brancola e non incanta più le folle, nemmeno quando vince». Non perse una partita, perse l’anima. Gli artisti divennero eccezioni ( Ronaldinho, Neymar) e non più regole, «i bambini non giocano più per strada, partono troppo giovani per l’Europa... vengono disciplinati, nutriti, carni bianche, zuccheri lenti, vita morigerata, poca fantasia e pochi uncini». Il mantra degli agenti diventa: «Fatevi i muscoli e la Champions League... Hyundai, Heineken, Gazprom vi tendono le braccia».
Con quella partita sono finite un’epoca e una cultura, è svanita la figura soavemente triste del malandro e lì, non quando lo hanno seppellito, è veramente morto Manoel Francisco dos Santos detto Garrincha, lo scricciolo.
«Oddio, un altro libro su Garrincha», ho pensato ricevendo il saggio di Guez e temendo un effluvio retorico sull’incanto e la disgrazia che hanno avvolto l’ala del Brasile. Invece il libro trova una sua necessità nel sostenere, e in larga parte dimostrare, che il calcio non è, come si ripete a gettone, «metafora della vita», ma piuttosto un suo prodotto, una conseguenza logica e storica.
Il percorso seguito da Guez per affermarlo è doppiamente interessante perché, finito che lui abbia di applicarlo al Brasile, possiamo continuare con l’Italia,la Francia, il resto del mondo. Partendo proprio dalla finta di Garrincha. Era un gesto unico, ripetuto su infiniti palcoscenici, un trucco che funzionava sempre, come il clou nel repertorio di un illusionista. Ma dietro c’erano un mondo, una storia.
Non quella personale di quel, pur straordinario giocatore: questo è il punto. Se non fosse stato Garrincha, sarebbe stato un altro. Lui era il caso, l’esistenza di un dribblatore dionisiaco con la maglia gialloverde una necessità. È questo ciò di cui non ci si accorge quando si dice che in un luogo non nascono più fantasisti, registi, portieri. Non è cambiato il dna, è cambiato il contesto.
Quello che permise, anzi impose Garrincha fu l’evoluzione di un Paese immenso e pericoloso in cui gli schiavi venuti dall’Africa a imbastardire ulteriormente una razza già incrociata con la feccia del Portogallo impararono per salvarsi a correre e schivare, in altri termini a dribblare. Se nel calcio esportato con i famosi due palloni di sir Charles Miller da Southampton il giocatore colorato si incipria il volto scuro e liscia i capelli crespi con la brillantina, in quello di metà Novecento si libera e si esprime, alfiere di una società crogiolo, prototipo di quell’ibrido che ha scongiurato la profezia del direttore del Museo Nazionale di Rio: «L’ultimo nero brasiliano scomparirà nel 2012». A metà Novecento gioca e regna, è la trasposizione sul campo del malandro, canaglia azzimata, scaltro ma non disonesto, che zigzaga tra leggi e lacci. È la maturità del bambino che inseguiva il pallone tra le auto. È l’unica forma di meritocrazia esistente. Poi le auto crescono chiudendo gli spazi, le leggi si moltiplicano e la fantasia diviene un reato come altri. I «corpi geniali» come definisce Guez quelli dei campioni sconfitti dell’ 82 finiscono imprigionati negli schemi.
Al bivio tra modernità e tradizione il dribblatore appare il retrogrado sostenitore di usanze incivili. Scrive Guez: «All’epoca di Messi, Ronaldo, Ibrahimovi?, tutti atleti immensi, purosangue, non c’è posto né per il dilettantismo né per la spensieratezza di clown bonari come Garrincha».
Amen. Il boia del malandro è il ct della Selecao ai Mondiali del 1990, l’ex portiere Lazaroni, che manda in campo una squadra di armadi e sicari, con cinque, anche sette difensori, segna 4 gol in 4 partite ed esce agli ottavi contro l’Argentina del malandro supremo: Diego Armando Maradona.
Un allenatore, chi altri poteva essere l’assassino? Nel giallo del calcio è il maggiordomo, ma come in un testo di Harold Pinter diventa il padrone. Si prende la scena, umilia il dribblatore fin dalle giovanili. Vuoi la maglia da titolare? Passa a due tocchi. La squadra diventa un congegno, l’orologiaio il genio. Abbiamo paragonato Sacchi a Copernico. Guardiola rischia il Nobel per la letteratura. Discutiamo Allegri più di Hegel.
L’allenatore è il capo politico che avoca a sé il partito e piazza il nome sulla lista. O viceversa. Le sue ossessioni danno la linea. Da «Gattuso su Zidane!» a «Fuori Gattuso!» c’è la storia di vent’anni d’Italia. Memorabile resta il brasiliano Zico che allenando il Giappone si arrabbia perché i giocatori non si discostano mai e poi mai dalle sue direttive. «Il samurai non è un discolo», scrive Guez. E gli yesmen non ballano, non cantano, non fintano.