Robinson, 1 giugno 2019
Mia madre, il Re e la cosa di tutti
Mia madre era monarchica, votava Stella e Corona e aveva la fotografia di Umberto di Savoia sulla sua scrivania.” È l’ex re d’Italia, è in esilio a Cascais”, mi diceva quando ero bambino e le chiedevo chi fosse quel signore calvo, dall’aria mesta. Le parole “esilio” e soprattutto “Cascais” mi facevano pensare al re e alla monarchia come ai protagonisti di un disgraziato incidente.
Effettivamente, come avrei potuto appurare più grandicello, l’incidente ci fu, e non lieve. L’incidente fu il fascismo, e poi a catena la guerra, la fuga indecorosa dei Savoia, l’esilio, e quella specie di anatema civile contro l’ex casa reale che la Costituzione sancì solennemente. Monarchia, per me bambino, era dunque una parola triste e sconfitta. Repubblica era il suo contrario, una parola vegeta e vittoriosa. La Repubblica italiana, il tricolore, l’Inno di Mameli, la foto del presidente ( il primo che ricordo era Giovanni Gronchi) sopra i banchi di scuola, la serena normalità postbellica nella quale sono cresciuto: quella era la repubblica. Era un presente normale e rassicurante, preceduto da un passato burrascoso e luttuoso del quale in casa si parlava malvolentieri. Non si parlava di guerra, non si parlava della lunga prigionia di mio padre in Africa, non si parlava di fascismo e si parlava quasi niente di monarchia: solo quando l’onorevole Covelli, un anziano signore di Avellino che pareva uscito da un giornale illustrato degli anni Venti, appariva a Tribuna Politica e mia madre voleva ascoltarlo. Mio padre votava liberale e trattava la fede monarchica di mia madre con affettuosa indulgenza, come una mania oramai indolore. Guerra e monarchia erano stati entrambi seppelliti da un presente che era il mio e quello del mio Paese: e quel presente ci piaceva. A scuola si faceva educazione civica (non ricordo se fin dalle elementari, ma forse sì) e mi spiegarono che repubblica vuol dire “la cosa pubblica”, la cosa di tutti. Dai tempi dei romani. Questo fatto che la repubblica fosse una cosa di tutti rafforzò la mia simpatia infantile per il concetto. Se la foto della monarchia era un signore solo, lontano e triste ( a Cascais, per giunta), l’immagine della repubblica comprendeva tutti quanti, tutto ciò che era vicino e presente. Mi venivano in mente piazze e strade piene, qualcosa di rumoroso e colorato. La politica, le elezioni, i manifesti elettorali, i comizi.
Credo di avere sovrapposto per parecchi anni i due concetti di” repubblica” e” democrazia”. Mi sembravano la stessa cosa, e invece non lo sono. Ci sono monarchie, su al Nord, molto più democratiche di certe repubbliche – per esempio quella russa, e probabilmente anche la nostra. E ci sono re e regine molto meno autocratici e prepotenti di tanti capi del governo repubblicani. Dunque non basta, vivere in una repubblica, per sentirsi democratici. Il tempo avrebbe aggiunto altri dubbi, e nuove cicatrici, alle mie cognizioni in fatto di repubblica. La repubblica delle banane, la notte della repubblica, la repubblica degli scandali e delle mazzette. Le continue crisi di governo, le feroci discordie politiche, come se “cosa di tutti” volesse dire che bastava l’arbitrio di pochi narcisi, o di pochi prepotenti, per metterla a repentaglio. La stessa parola “tutti” cominciò a sembrarmi, come garanzia di salute pubblica, un po’ meno rassicurante. Ciò che da bambino mi era sembrato nuovo e integro cominciava e rivelare i suoi difetti, le sue debolezze, le sue rughe.
Eppure quell’idea semplice, di strada e di piazza, di socievolezza e di appartenenza, mi è rimasta nel fondo del cuore. La cosa di tutti non può che essere (perché lo è nelle intenzioni e negli scopi) qualcosa di superiore e di più importante, rispetto alle cose di ciascuno, o alle cose di pochi. Ben prima delle sottigliezze giuridico- costituzionali, è l’idea repubblicana in sé che conduce e in un certo senso costringe ognuno di noi all’esercizio dei suoi diritti e dei suoi doveri: una cosa che è di tutti ha bisogno, per sopravvivere, che tutti se ne sentano i custodi, e al tempo stesso che tutti le portino riconoscenza e obbedienza.
Non credo che sia merito della fotografia di Umberto e nemmeno dell’onorevole Covelli, ma ho rispetto dell’idea monarchica e della sua sacralità: una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, simbolicamente, una persona” sacra”. Forse perché l’imprinting di mia madre monarchica è ancora attivo, riconosco nel presidente della Repubblica lo stesso, potentissimo significato simbolico: è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. La differenza ( radicale) è che la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare “la cosa di tutti”. È la democrazia a esprimerlo, di volta in volta, e nessuno, alla fine del suo mandato, saprà più niente della sua famiglia, dei suoi figli e dei suoi discendenti, che torneranno a essere folla tra la folla.
La repubblica è anti- assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società, non del risultato di remote battaglie e matrimoni tra eredi al trono. La sola successione che conta, nella repubblica, è l’idea che un popolo si è fatta di se stesso: ha facoltà di cambiare gli uomini che lo rappresentano, e peggio per lui se farà cattivo uso di questa facoltà. Dunque si è repubblicani – o almeno lo sono io – se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, non simula l’eterno, accetta il limite, lo traduce in politica. Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava la Repubblica andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto, per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno, prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della res publica, della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? È al tempo stesso un nome umile e alto.
Peggio per chi non se ne è accorto prima.