Tuttolibri, 1 giugno 2019
Le bambine sopravvissute a Mengele
I suoi racconti sanguinano. Eppure… eppure la ascolti. Ne raccogli le parole, le rivelazioni: piana placida profonda e limpida come uno specchio. Incontro Tatiana Bucci che parla a una grande platea, in gran parte ragazzi, studenti. Silenziosi. Quieti. Attenti. Tutto alla sua voce si mette in moto piano piano, è così che bisogna raccontare, nel modo in cui lavora la Madre Terra.
Che forza ci vuole per essere così lucidamente inconsolabile! Accompagna gruppi a visitare il lager, tiene conferenze, ha scritto con la sorella Andra un libro Noi bambine ad Auschwitz, edito da Mondadori. Non fa tutto questo per attenuare il suo dolore, come sarebbe possibile?, ma per aumentarlo, per collocarlo in tutto il mondo, per renderlo anche nostro. E tuttavia il suo cordoglio si mostra calmo: calma la grazia del suo volto.
Tatiana: uno dei bambini di Auschwitz, Tatiana e la sorella inghiottite, a dieci anni, da un kinderblock, il lager delle piccole cavie destinate ai terribili esperimenti del dottor Menghele. Andra e Tatiana. Vive. Due delle sessanta cavie che sono tornate. Le altre ventitremila passate in quel campo no. E d’altra parte... come è inutile tentare di allontanarsi da questo. No: non si può allontanarsi da questo. I viaggi nel tempo non portano lontano, in quieti anfratti della Memoria. Ingrandiscono. Si ha mai la possibilità di deporre il fardello della propria anima per non ricordare le cose a cui si è passati accanto?
Allora: ricordare ricordare ricordare. Non è una maledizione, è un dono. Il cuginetto Sergio scomparso per aver fatto un passo avanti quando l’aguzzino chiese chi voleva vedere subito la mamma. E invece… era trucco malvagio, l’inganno della morte. E gli altri, gli altri: i cugini gli zii Aaron Mario Carola, Silvio, morto tra le braccia della madre che sospira «finalmente»… Ravensbruck Bergen-Belsen Birkenau… I loro occhi, i loro passi, i loro pianti, i loro silenzi annientati da tante decine di anni: il Nulla che esiste più di tutto ciò che esiste. Non avverti lo sforzo che fa per accostarsi a questo: quei passi verso la stanza fatale, quei passi di cui non resta più traccia il giorno dopo e che tuttavia sono. Dove sono? Sono in lei, Tatiana Bucci, in lei e poi in noi che li sentiamo quando racconta. Il tempo non è il tempo, lo spazio non è lo spazio. Basta questo per cancellare chi ancora oggi nega, chi mente, chi minimizza.
A Fiume, allora italiana, marzo del 1944. Il nascondiglio della famiglia è svelato. L’illusione che l’essere poveri in fondo fosse una sorta di immunità; il delatore che ha aiutato i tedeschi a trovarli, il delatore italiano. Ce n’erano ahimè! quanti ce n’erano di questi ometti sornioni a caccia di un ruolo importante e di bottino. La nonna Rosa che in ginocchio prega invano il capo dei tedeschi e dei fascisti di non prendere i bambini.
Guardo quello che lei dice, la scena che non è più. L’evocazione. L’evocatore. Chiude le palpebre, si sente che è assalita da tutto un mondo, non può liberarsi da questa grandezza tragica che è in lei. La sua memoria non ha pietà, lei non vuole che abbia pietà. Inesorabile, immobile il passato diventa una divinità, che non si lascia supplicare.
La sosta nella risiera di San Sabba, il lager italiano, il viaggio verso il Campo. Il Buio è una realtà impressionante, pare vivere, aver radice, tenere un suo posto. Mai le parole sono state così piene. Chi ha detto che l’Olocausto è l’inesprimibile?
Vivo l’universo del prigioniero che si stringe: via la città dove hai vissuto, poi la strada che si svuota, il vagone lurido e infine il Campo, il Male allo stato puro. Visto con gli occhi di un bambino. Con lo stupore di un bambino. Come ha potuto mantenerne intatta nel ricordo questa innocenza? Credevo, prima di lei, che per il sopravvissuto la vita diventasse in fondo una lotta per i morti e contro i morti. Pregare per liberarsi della loro presenza. Ma questa liberazione, se mai fosse possibile, sarebbe un tradimento, il tradimento dell’abbandonarli. Voi non avete visto… io sì. E ho solo le parole… L’ossessione del sopravvissuto: parlare per i morti.
Tatiana racconta come per lungo tempo, dopo la guerra al sentire parole in tedesco fosse invasa dalla paura. Che salta fuori dal buio come un cane furioso e ti azzanna con un morso. L’assassino lascia nella vittima, anche in quella che gli è sfuggita, il proprio marchio, la lega a sé con una catena così dura che mai si spezza. Poi se ne va e torna il silenzio, sa che ti tiene. E invece Tatiana l’ha spezzata. I tedeschi non sono più quei tedeschi, la loro voce non le fa più paura. Racconta che al contrario di altri testimoni non dice: «noi non siamo mai usciti da Birkenau. No, noi ne siamo uscite, a nostro modo, con le nostre eredità. Ma lo abbiamo fatto, tanto che poi siamo state capaci di rientrarci ancora…».
Tatiana parla dei migranti di oggi: sappiamo come gli altri esuli vengano trattati, ammassati nei campi di raccolta, accusati di portare via la casa o il lavoro a chi già c’è… vedere le ingiustizie intorno a noi, ci fa davvero male e ci spinge a raccontare e a raccontare di nuovo, sempre di più…
Chi meglio degli ebrei può capire? anche loro, per secoli, si sono sentiti di troppo.