Tuttolibri, 1 giugno 2019
Biografia di Agnes Heller
Aveva deciso di fare la scienziata, perché da piccola lesse un libro su Madame Curie. Suo padre, che era un sognatore, le suggerì invece di darsi alla filosofia perché per una donna, nell’Ungheria patriarcale e conservatrice degli anni 30, non c’era mestiere più strambo e gratificante. Il padre le raccomandò altresì di non sottovalutare il piacere sessuale, perché non bisognava credere a chi diceva che per le donne il sesso non conta. Boutade che solo in apparenza pare lontana orgasmi luce dal mondo delle idee: probabilmente anch’essa contribuì a far capire ad Ágnes Heller che l’antropologia è una faccenda complessa, che l’essere umano ha infinite necessità e tutte vanno soddisfatte per vivere una vita piena e degna. Come capì ai tempi della «teoria dei bisogni», e come è stata la sua di vita, a cavallo di due millenni, che narra in una splendida autobiografia, Il valore del caso.
Nata in una famiglia ebrea povera (esistevano anche i giudei squattrinati a Budapest, nonostante la vulgata antisemita li volesse tutti plutocrati e complottisti!) che non credeva in un Dio bensì nell’arte, nella cultura e nella poesia, fu educata alla leggerezza. Il genitore, ateo e ottimista fino all’ultimo, le scrisse in un biglietto prima di morire nel 1938 di non perdere mai la speranza perché nonostante le brutture viste il Bene in fine prevarrà.
Dopo l’Olocausto, e tutto il resto, Heller ha smesso questa fiducia incondizionata nella parabola dell’umanità, così come nei grandi sistemi filosofici e nelle utopie, ma crede ancora che il bene si possa e si debba fare nel nostro piccolo, e soprattutto che neppure il Male vince per sempre.
Con questo ottimismo non della ragione, ma della ragionevolezza, la filosofa ungherese racconta la propria esistenza come un romanzo, con la stessa baldanza e lo stesso distacco che un autore ostenterebbe verso le peripezie del proprio personaggio. Il romanzo assurdo, kafkiano, mitteleuropeo del secolo breve. Dopo l’orrore della guerra, arrivano lo stalinismo di Rákosi, l’illusione di poter riformare il socialismo con Nagy, la repressione sovietica della rivoluzione del ’56, e, dulcis in mundo, il sovranismo di Orbán.
Durante il kadarismo, con tutti i compromessi che esso richiese (come l’umiliante pratica di confessare peccati revisionisti e reazionari), lei, intransigente, continuò a studiare Marx, ma lo declinava (eretica) più con Kant che con il partito comunista. Allieva di Lukács, gli fu fedele in tutti gli alti e bassi della carriera, che lo vide sia ministro sia fuggiasco per scantonare la galera: il maestro la ricompensò oltre che con la stima con un gruzzolo di fiorini per acquistare un appartamentino di 24metri quadrati (senza cucina, poteva accogliere appena due amici per volta).
Ci sono le tante amicizie importanti, con Kołakowski (se ne innamora), Habermas, Bloch (le smolla un bacio antisovietico), Adorno, il regista Jancsó. La fecondità teorica della «Scuola di Budapest». La fatica di vivere nel socialismo spiati da agenti maldestri senza potersi fidare di nessuno, neppure dell’amico o del parente. Le promesse mancate della primavera di Praga nel ’68. L’emigrazione in Occidente negli Anni 70. La noia per il musical Cats, il piacere per i western di John Ford.
E poi, la filosofia. Un meraviglioso strumento di intelligenza. A patto, però, che non schianti la vita nelle forme. Un giorno, durante una passeggiata con Lukács in campagna, il maestro vedeva ontologia ovunque, negli alberi, nel cielo, nelle bestie. Lei obiettò, «compagno Lukács, le mucche non mangiano categorie ma erba quando hanno fame», e lo invitò a godersi la bellezza del paesaggio, a respirare l’aria fresca. La dedizione al lavoro, agli ideali, all’etica, deve sempre coesistere con la gioia di vivere. Se nelle avversità Heller è riuscita a sopravvivere con tenacia è solo perché non ha mai dimenticato quanto è bello mangiare un pezzo di salsiccia con gli amici o baciare un compagno di idee sulle labbra.
Aveva deciso di fare la scienziata, perché da piccola lesse un libro su Madame Curie. Suo padre, che era un sognatore, le suggerì invece di darsi alla filosofia perché per una donna, nell’Ungheria patriarcale e conservatrice degli anni 30, non c’era mestiere più strambo e gratificante. Il padre le raccomandò altresì di non sottovalutare il piacere sessuale, perché non bisognava credere a chi diceva che per le donne il sesso non conta. Boutade che solo in apparenza pare lontana orgasmi luce dal mondo delle idee: probabilmente anch’essa contribuì a far capire ad Ágnes Heller che l’antropologia è una faccenda complessa, che l’essere umano ha infinite necessità e tutte vanno soddisfatte per vivere una vita piena e degna. Come capì ai tempi della «teoria dei bisogni», e come è stata la sua di vita, a cavallo di due millenni, che narra in una splendida autobiografia, Il valore del caso.
Nata in una famiglia ebrea povera (esistevano anche i giudei squattrinati a Budapest, nonostante la vulgata antisemita li volesse tutti plutocrati e complottisti!) che non credeva in un Dio bensì nell’arte, nella cultura e nella poesia, fu educata alla leggerezza. Il genitore, ateo e ottimista fino all’ultimo, le scrisse in un biglietto prima di morire nel 1938 di non perdere mai la speranza perché nonostante le brutture viste il Bene in fine prevarrà.
Dopo l’Olocausto, e tutto il resto, Heller ha smesso questa fiducia incondizionata nella parabola dell’umanità, così come nei grandi sistemi filosofici e nelle utopie, ma crede ancora che il bene si possa e si debba fare nel nostro piccolo, e soprattutto che neppure il Male vince per sempre.
Con questo ottimismo non della ragione, ma della ragionevolezza, la filosofa ungherese racconta la propria esistenza come un romanzo, con la stessa baldanza e lo stesso distacco che un autore ostenterebbe verso le peripezie del proprio personaggio. Il romanzo assurdo, kafkiano, mitteleuropeo del secolo breve. Dopo l’orrore della guerra, arrivano lo stalinismo di Rákosi, l’illusione di poter riformare il socialismo con Nagy, la repressione sovietica della rivoluzione del ’56, e, dulcis in mundo, il sovranismo di Orbán.
Durante il kadarismo, con tutti i compromessi che esso richiese (come l’umiliante pratica di confessare peccati revisionisti e reazionari), lei, intransigente, continuò a studiare Marx, ma lo declinava (eretica) più con Kant che con il partito comunista. Allieva di Lukács, gli fu fedele in tutti gli alti e bassi della carriera, che lo vide sia ministro sia fuggiasco per scantonare la galera: il maestro la ricompensò oltre che con la stima con un gruzzolo di fiorini per acquistare un appartamentino di 24metri quadrati (senza cucina, poteva accogliere appena due amici per volta).
Ci sono le tante amicizie importanti, con Kołakowski (se ne innamora), Habermas, Bloch (le smolla un bacio antisovietico), Adorno, il regista Jancsó. La fecondità teorica della «Scuola di Budapest». La fatica di vivere nel socialismo spiati da agenti maldestri senza potersi fidare di nessuno, neppure dell’amico o del parente. Le promesse mancate della primavera di Praga nel ’68. L’emigrazione in Occidente negli Anni 70. La noia per il musical Cats, il piacere per i western di John Ford.
E poi, la filosofia. Un meraviglioso strumento di intelligenza. A patto, però, che non schianti la vita nelle forme. Un giorno, durante una passeggiata con Lukács in campagna, il maestro vedeva ontologia ovunque, negli alberi, nel cielo, nelle bestie. Lei obiettò, «compagno Lukács, le mucche non mangiano categorie ma erba quando hanno fame», e lo invitò a godersi la bellezza del paesaggio, a respirare l’aria fresca. La dedizione al lavoro, agli ideali, all’etica, deve sempre coesistere con la gioia di vivere. Se nelle avversità Heller è riuscita a sopravvivere con tenacia è solo perché non ha mai dimenticato quanto è bello mangiare un pezzo di salsiccia con gli amici o baciare un compagno di idee sulle labbra.