Tuttolibri, 1 giugno 2019
Biografia di Manuel Vilas
So che morirò senza aver letto molti dei libri che mi avrebbero salvato la vita. Rimarranno perduti, sepolti, nascosti, nel caos della mia biblioteca o di altre biblioteche. Centinaia di libri eccezionali non verranno mai letti da esseri umani eccezionali. Tutta la storia della letteratura è inedita per milioni e milioni di esseri umani che non leggono. I nostri classici occidentali sono ancora sconosciuti per milioni di esseri umani: che grande paradosso.
Per milioni di esseri umani «Posso scrivere i versi più tristi questa notte» o «Così tra questa/ inmensità s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare» potrebbero essere versi scritti in questo momento.
Mi rimangono da leggere molti romanzi di Dickens, di Galdós, di Dostoevskij. Non ho letto tutto ciò che hanno scritto i greci. Migliaia di libri non letti, libri che mi perseguitano con la loro ombra violenta.
Nella vita di un uomo non c’entrano tanti libri.
Nessuno sa quali opere dell’Antichità classica si sono perdute nell’immensità della notte e del tempo. Mi mancano pagine e pagine di William Faulkner. A poco a poco dimentico le tragedie di Shakespeare che ho letto a vent’anni. Dimentico ciò che ho letto e mi ricordo dei dorsi appena intravisti dei libri che non leggerò mai. Non c’è malinconia in questo. C’è fascinazione. Posso inventarmi il piacere morale e l’incanto che mi provocherebbero quei libri straordinari che non conoscerò, perché la mia vita è mortale.
Non potrò mai più rileggere Franz Kafka, perché se lo rileggessi non potrei leggere gli ultimi romanzi degli scrittori spagnoli, italiani, francesi o tedeschi che stanno scrivendo in questo momento e che sono miei contemporanei.
Morirò senza conoscere la grande letteratura medievale russa, o la poesia ungherese del XIX secolo, o il teatro barocco polacco. Perché non imparerò mai il russo, l’ungherese o il polacco.
Morirò senza sapere come suonavano duemilacinquecento anni fa i versi di Omero. Morirò senza sapere cosa pensavano della morte migliaia e migliaia di personaggi di romanzi che parlano della morte e che non avrò il tempo di leggere perché la morte me lo impedirà.
Come Don Chisciotte
In questo istante per strada brilla un sole primaverile, siamo nel mese di maggio. Madrid è una città piena di vita. Nessun essere umano, superati i cinquant’anni, può dedicare alla lettura giornate intere. Perfino Don Chisciotte, una volta compiuti i cinquant’anni, smise di leggere e scelse di vivere. Anch’io chiudo i libri, come ha fatto Don Chisciotte, mi alzo dalla scrivania ed esco. E allora scopro la bellezza della vita. E m’innervosisco moltissimo, perché tutto è ferocemente intenso: le persone, le strade, gli alberi, le case, i semafori, le nuvole, i negozi. E allora torno a casa. E voglio che nulla si perda. E apro il computer. E scrivo, come hanno scritto centinaia di esseri umani prima di me, con la stessa intenzione di non far svanire, di non far scomparire la bellezza della vita. Siamo una catena di fantasmi innamorati. Celebriamo le pagine scritte da uomini e donne al servizio della vita, sotto il suo dettato, e che non leggeremo mai. Anche non leggere mai quelle pagine è bellezza.
Ah, la letteratura e la morte, due grandi ballerine nell’oscurità.
Rimbaud e Poe erano ignorati
Gli scrittori che hanno scritto prima di noi e che chiamiamo «classici» sono stati persone come noi. Hanno sofferto come noi, o forse molto più di noi. O sono stati assassinati, come il poeta spagnolo Federico García Lorca o Pier Paolo Pasolini, o sono stati ignorati ai loro tempi come Fernando Pessoa o Edgar Allan Poe o Arthur Rimbaud.
I classici si aspettano da noi uno sguardo innamorato. È un bene riverire le loro opere, ammirare le loro grandi invenzioni letterarie, ma credo che, dovunque siano e perfino se non si trovano da nessuna parte e sono soltanto nulla, polvere, cenere, ci siano grati del nostro amore. Perché c’è un punto misterioso della letteratura che invoca l’amore.
I classici non ci sentono, non sentono né i nostri elogi, né i nostri silenzi, né i nostri oblii, né i nostri disprezzi, né le nostre solenni riflessioni sulla letteratura e sulle loro opere. Non sanno di essere diventati dei classici. Non sanno nulla delle nostre leggi, delle nostre gerarchie, dei nostri canoni, dei nostri deliri.
Se Kafka risorgesse dalla tomba, impazzirebbe vedendo che la sua vita e le sue opere sono diventate uno dei riferimenti letterari più importanti della storia della cultura occidentale.
Cosa penserebbe Kafka del Kafka che tutti leggiamo e amiamo?
Guardo negli occhi i lettori
Cosa penserebbe Kafka dell’aggettivo kafkiano con cui definiamo i nostri disordini mentali, le nostre insoddisfazioni e i nostri deliri più intimi? Probabilmente, si sentirebbe vittima di un malinteso kafkiano.
Per sfuggire al tempo e alla morte, per dimenticare, sia pure per un istante, che tutti gli scrittori che definiamo classici sono morti sebbene le loro opere perdurino, e per dimenticare anche che non troveremmo nessuno scrittore universale che non fosse disposto a scambiare la propria fama postuma per un’ora di vita in più, o per un minuto di vita in più, o per un solo secondo di vita in più, pensiamo ai lettori. Celebriamo le mille ragioni, tutte diverse, che spingono un uomo o una donna a cercare un libro. Io ho guardato molto negli occhi i miei lettori. Perché ciascuno di loro ha una vita che cerca di comprendere attraverso i libri, che cerca di ampliare o di esaltare con l’aiuto di un romanzo, di un libro di memorie, di un saggio, di alcune poesie.
Il mistero della vita
C’è qualcosa in comune fra uno scrittore e un lettore: la necessità di affrontare il mistero della vita. Per questo uno scrittore scrive, e per questo un lettore legge. È questo che continuiamo a cercare nei classici: il mistero della vita. Per questo continuiamo a leggere Franz Kafka, lo scrittore che ha avuto più influenza su di me, perché mi ha insegnato a guardare il mistero della vita e a guardarlo in tutta la sua vastità, in tutta la sua complessità e perfino in tutta la sua malignità.
Uno scrittore è una solitudine sotto forma di libro. Un lettore è una solitudine rinchiusa in due mani che aprono un libro. Quando un lettore apre quel libro, le due solitudini collidono, collidono due misteri, ed è bello, ma c’è anche qualcosa di impudico, una complicità svelata. E la solitudine è uno dei grandi enigmi della condizione umana. Nasciamo soli e moriamo soli. Abbiamo bisogno della letteratura perché la letteratura ci fa sentire meno soli.
Bimbo fra Dante e Dostoevskij
Non conosco bene, e temo che non lo conoscerò mai più, il motivo per il quale mio padre comprò, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, una collana di grandi opere della letteratura universale. In quella collana c’erano diversi tomi di Dante, Cervantes, Dostoevskij e Kafka. Da bambino quei volumi hanno presieduto la mia infanzia, e m’intrigavano profondamente.
Credo che mio padre avesse comprato quei libri pensando al suo primogenito, cioè a me. Mio padre era stato tolto dalla scuola a dodici anni e non aveva potuto studiare al di là della formazione di base.
Perché comprò quei libri se l’evidente difficoltà della loro lettura gli avrebbe impedito di leggerli? Mio padre non lesse né Dante né Cervantes né Kafka. Non aveva gli strumenti culturali né la formazione per leggerli. Non li aveva perché fu una vittima della Guerra Civile spagnola e non ebbe l’opportunità di studiare. Suo padre, mio nonno, subì le rappresaglie del franchismo e dopo la guerra venne condannato a dieci anni di carcere per il reato di aver collaborato con la Repubblica.
Quando uscì di prigione, venne dichiarato «persona non grata» dal sindaco franchista del suo paese. Desolato, indifeso, intimorito, triste, malato, malatissimo di tristezza e di solitudine, morì poco dopo essere uscito dal carcere.
Mio padre pensò che suo figlio avrebbe vissuto un altro momento della storia spagnola, un momento migliore, un momento in cui ci sarebbe stata uguaglianza di opportunità. Oggi parliamo del diritto all’uguaglianza di opportunità come di qualcosa di indiscutibile, di non negoziabile. Tuttavia si tratta di un diritto recente nella storia e, nel caso della Spagna, di un diritto con scarsi quarant’anni di vita reale.
E così è stato, io ho avuto accesso a un’educazione superiore, e sono stato io che ho finito per leggere quei libri che mio padre aveva comprato agli inizi degli anni Sessanta. Hanno dovuto attendere vent’anni per essere letti. Avevano ancora il cellophane originale, un cellophane che aveva resistito per due decenni prima di giungere fra le mie mani di ragazzo curioso che lo ha strappato per accedere a quelle pagine.
Libertà, amore e morte
Da allora, quei libri sono la mia biblioteca. Sono soltanto otto volumi, però in quegli otto volumi mio padre mi lasciava in eredità un tesoro, il tesoro della condizione umana, della libertà, dell’amore, del tempo e della morte. E un altro tesoro ancora più nascosto, celato molto meglio e più raggiante e potente di quello che ho appena nominato: il tesoro del suo amore per me, suo figlio.
Mio padre pensò che forse quei libri mi avrebbero aiutato a non morire di tristezza e di solitudine, com’era morto mio nonno.
E a questo serve la letteratura, almeno quella che io cerco di scrivere.
Serve a farci amare di più gli altri e noi stessi, a farci innamorare della vita e degli altri esseri umani.
La letteratura è al servizio della vita.