Corriere della Sera, 1 giugno 2019
Il fascino dell’Uzbekistan
Correva veloce il cavallo di Roberto Vecchioni per sfuggire al destino, come ispirata e rapida era la penna di Christopher Marlowe (il rivale di William Shakespeare) nel descrivere la crudeltà di Tamerlano. Il nemico più nobile aveva la sorte migliore tra tutti gli sconfitti: in una gabbia mangiava gli avanzi gettati dalla tavola dell’imperatore e gli faceva da poggiapiedi quando l’emiro (il comandante) era seduto sul trono. Marlowe lo descrive suicida sbattendo la testa contro le sbarre, una scena splatter degna del Trono di Spade.
Sulla Via della seta non c’è luogo più mitico ed esotico di Samarcanda. Steppe, cavalli, spazi sconfinati, palazzi degni dell’impero che fu. Gengis Khan segnò la via verso Ovest, Tamerlano e i suoi discendenti replicarono l’impresa unendo due imperi: quello del cavallo mongolo e quello dell’Islam.
Mentre in Europa declinavano le città musulmane dell’Andalusia, mentre la peste nera (quella del Decamerone di Boccaccio) viaggiava sulle carovane dall’Himalaya alle navi di Genova, i cavalieri dell’Asia Centrale si preparavano a conquistare il mondo. I discendenti di Tamerlano arrivarono in India, in Cina, a Mosca e si fermarono appena prima di dilagare in Europa occidentale solo per tornare ad eleggere il nuovo Gengis Khan, il re universale. Chissà, oggi noi saremmo musulmani se alle porte di Vienna non fosse arrivato un messaggero con la notizia del lutto e la necessità per il capo dell’Orda d’oro di riunirsi ai suoi pari nel cuore dell’Asia. Era lì il centro del mondo, allora.
L’impero del cavallo ebbe vita breve. La superiorità bellica finì con l’evoluzione tecnologica, ma fuso con quello del Corano, chissà? Un’idea forte come la fede islamica avrebbe potuto competere con i miti unificanti delle società europee. Tanto più che arti e scienza non mancavano a Samarcanda: fu Ulugh Beg, il Galileo Galilei musulmano, a calcolare in 365 i giorni dell’anno con il suo astrolabio ancora in parte visibile.
Non esiste controprova, ma nelle pianure dell’odierno Uzbekistan successe ciò che poteva accadere anche ai cristiani d’Europa: popoli animisti, zoroastriani o buddisti si convertirono al Corano e le loro capitali divennero perle per la gloria di Allah e degli uomini.
I mongoli risparmiarono a Bukhara il minareto Kalyan perché non avevano mai visto niente di tanto alto costruito da mani umane. Il mausoleo di Tamerlano, semplicemente la «tomba del comandante» (Gur-e Amir) riprende la tradizione babilonese, la copre di piastrelle persiane per poi tingerla di turchese, indaco, lapislazzuli. Il risultato è in edifici rivali dei cieli che li sovrastano ma anche della contemporanea architettura rinascimentale italiana.
Un viaggio in Uzbekistan, come questo proposto dal Corriere a settembre in collaborazione con Francorosso, è un’immersione nella storia che fu e che avrebbe potuto essere. Si toccheranno tra le altre Kiva, che si vuole fondata da un figlio di Noé sceso dall’Arca, Bukhara, Samarcanda e la capitale moderna Tashkent. Sarà soprattutto lì che si coglieranno le tracce di un altro impero, quello sovietico. È stato grazie alla chiusura dell’Urss al turismo, se i monumenti antichi sono rimasti inaccessibili durante il XX secolo. Con la disgregazione sovietica l’ex repubblica uzbeka è diventata ansiosa di mostrarsi al mondo, ma non per questo molto più libera. Il controllo statale resta fortissimo. Si giustifica con la prossimità all’Afghanistan, con l’area irrequieta della valle di Fergana, che non è una valle, ma una regione agricola una volta ricchissima e ora capace di sopravvivere solo grazie ad aiuti esterni raramente disinteressati. Il commercio dell’oppio, il controllo dell’acqua indispensabile alla Russia, l’infiltrazione dell’estremismo wahabita passano dalla «valle» e noi, ovvio, non andremo a Fergana.
L’attuale presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev sta puntando molto sul turismo. Non si può permettere incidenti. Le rotte dei visitatori come una volta quelle della seta sono preservate come ricchezza strategica. Ma non solo. Se il Paese dovesse ricominciare ad esportare jihadisti come alcuni anni fa, la Russia di Putin è pronta ad intervenire. Sarebbe la fine dell’indipendenza.
La gente in Uzbekistan ha anche un certo senso dell’umorismo. Qui, dice una loro leggenda, nacque il velo musulmano. Lo impose la moglie del re a tutte le donne per coprire le tracce di un bacio adulterino ricevuto sulla guancia. Il trucco non funzionò. Il re la scoprì con le immaginabili conseguenze. Il velo però nel frattempo era già diventato di moda. Non è vero, ma potrebbe esserlo, come molte cose in Uzbekistan.