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 2019  giugno 01 Sabato calendario

Marco Bellocchio parla di Buscetta

Marco Bellocchio, il suo «Il traditore» con l’applauditissimo Francesco Favino nel ruolo di Tommaso Buscetta ha superato i due milioni di euro di incasso. Undici nomination ai Nastri d’argento. Domanda banale, ma aiuta a capire: se lo aspettava?
«Sinceramente no. Mi auguro che continui. Anche se so, come diceva proprio Falcone a proposito della mafia, che le cose hanno un inizio e una fine. Penso sia il frutto del lavoro di scrittura degli sceneggiatori e del mio. Abbiamo rielaborato una storia complessa che ha colpito e sconvolto molti italiani: la mafia, la strage di Capaci, Buscetta, Riina, il maxiprocesso di Palermo... Forse tutto questo è alla base del successo».
Possiamo parlare di «cinema civile», come avveniva nella stagione dei Rosi, dei Damiani, dei Lizzani?
«So che in alcune proiezioni a Palermo è scattato un applauso alla fine della proiezione. Si applaude a una prima, a un festival. È raro in una normale serata. Segno che quel pubblico ha condiviso un’emozione, una solidarietà, che c’è stata un’adesione. Sì, in questo senso è cinema civile. Se non fosse pericoloso di questi tempi, direi che è un film che parla di Patria».
La Patria: appare spesso nei discorsi politici...
«La mia concezione di Patria è distantissima da quella, che so, di Matteo Salvini o della destra. Non vorrei confusioni. La Patria che intendo è quella di Falcone, del suo senso dello Stato e delle istituzioni, che arrivò al sacrificio della vita. Una rarità: utilissima, credo, per le nuove generazioni. Ma anche oggi si fa cinema civile. Per me “Il Divo” di Paolo Sorrentino è cinema civile».
In questa storia ha avuto un ruolo importante il produttore Beppe Caschetto che le ha proposto l’idea di un film su Buscetta, così come le propose «Fai bei sogni», il libro di Massimo Gramellini, anche lì nacque un suo film. Che importanza ha un produttore come Caschetto per un regista come lei?
«Molta. Io non pensavo a Buscetta, mi ero soffermato sul personaggio come tanti altri italiani. E all’inizio anche per il libro di Gramellini avevo le mie perplessità. Ma Caschetto ha mostrato di credere nei progetti e si è posto un po’ come faceva Cristaldi: un produttore che indica al regista un’idea e poi gli lascia piena libertà di movimento. I produttori sono, a loro modo, anche autori. Amo i produttori presenti come Caschetto, tendo ad ascoltare le loro osservazioni. Non ho suscettibilità sulle prerogative di altri».
In questo film si parla molto anche di famiglia perché appare nelle storie di Buscetta, di Riina, di altri mafiosi: le mogli, i figli. Una scelta?
«La famiglia era e resta la cellula sociale primordiale che si oppone al caos. Siamo alla base della società. Infatti il comunismo tentò di sradicare la famiglia: i figli erano dello Stato e non dei genitori. Una delle tante ragioni del fallimento di quel sistema. Più vado avanti nella vita e più vedo quanto i legami familiari siano fortissimi: tanti figli, dopo magari qualche iniziale contestazione, proseguono nel solco dei padri e delle madri. Non solo al Sud, ma anche nell’operoso Nord. E poi basta accendere la tv e vedere la quantità di madri che raccontano la loro vita, magari chiedono giustizia».
Non c’era il pericolo, nel film, di «santificare» Buscetta? E se sì, come l’ha evitato?
«Buscetta non è un eroe. Non si sacrifica per alcun ideale ed è mosso solo dal desiderio di vendetta e di riaffermare i presunti valori della vecchia “Cosa nostra”, puntualmente contestati da Falcone. Il fatto che Buscetta sia un criminale è chiarissimo dall’inizio e soprattutto alla fine. Ma Falcone sapeva quanto fossero essenziali le sue rivelazioni e ha accettato anche i limiti del racconto di Buscetta: ne sapeva l’importanza».
Lei tratta il maxiprocesso di Palermo come un grande spettacolo teatrale, quasi d’opera...
«Gli elementi tragici erano tanti. I mafiosi e i loro avvocati fecero di tutto per ritardare e affondare il processo, ostacolando la giustizia con una serie di incidenti degni davvero del melodramma. Ma non ci riuscirono. E assistettero quasi stupiti a una grande vittoria dello Stato: arrivare alla sentenza».
Lei gira molte scene con una mano modernissima, contemporanea, da giovane autore. C’è chi si sarebbe autocitato...
«Quando affronto una storia sono attratto dai suoi meccanismi, dunque studio, mi soffermo, e decido per “quel” film. Autocitarmi? Sarebbe stata una scelta non suicida, magari, ma profondamente sbagliata, e inutile».
Un gran successo a 80 anni: altro che rottamazione...
«Il principio della rottamazione ha una sua logica, i giovani premono e fanno bene a farlo. Ricordo da ragazzino al Centro sperimentale di cinematografia Visconti che urlava “Che i morti seppelliscano i morti!” diretto ai vecchi autori. Io stesso fui sgradevole con De Sica proprio a metà degli anni 60, lui rimase male, me ne pento, sarebbe stato molto meglio se fossi rimasto zitto. Ma anche se si è anziani, e si hanno energie e cose da dire, si può continuare a dare un contributo, credo...».
Ora lavora alla serie tv su Moro.
«Un controcampo tutto in esterni all’ambiente chiuso di “Buongiorno notte”. Moro quasi sparirà, vedremo Cossiga, Andreotti, Zaccagnini, Fanfani, papa Paolo VI, la riservatissima famiglia. Attingeremo a tante fonti, non ci saranno pettegolezzi, come qualcuno teme, ma ci sarà il necessario spazio all’interpretazione della storia».
Ciascuno di noi è, nel corso di una vita soprattutto se lunga come la sua, molte e diverse persone. Cosa lega il Bellocchio del 1965 de «I pugni in tasca» a questo Bellocchio?
«Il piglio, il temperamento, l’amore per il lavoro sul set. È forse cambiato il rapporto con gli attori. Da giovane ero più introverso e chiuso. Oggi se un attore mi pone dei problemi su un personaggio o propone una soluzione, ascolto con maggiore attenzione e accetto l’obiezione se la ritengo importante».
E sul piano del carattere?
«Forse c’è più distacco. Intendiamoci: occorrono sempre passione ed entusiasmo per lavorare. Ma alla fine il distacco sta nel capire che un film è un film. E che la vita è la vita: e che ciò che davvero conta è la vita, quella vera. Anche se per un film hai speso tutte le energie possibili».