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 2019  giugno 01 Sabato calendario

Morte di Claus von Bülow

Negli anni del castigo, in esilio (formalmente volontario) dagli Stati Uniti, ogni tanto appariva nei teatri del West End di Londra, all’opera soprattutto, o in qualche ristorante. Silenzioso, gelido, aristocratico – come ai bei tempi. Claus Von Bülow, morto l’altra notte a Londra all’età di 92 anni, era il colpevole perfetto di un delitto imperfetto. Un bell’uomo alto, elegantissimo negli abiti sartoriali inglesi, gli occhi celesti del padre danese, l’accento acquisito in Inghilterra al Trinity College di Cambridge negli anni Quaranta e mai più abbandonato in decenni di vita negli Stati Uniti.
Il colpevole ideale: quando poco prima di Natale, nel 1980, la moglie Sunny, ricchissima, una Grace Kelly dell’Upper East Side a Manhattan, finì in coma, sembrò normale all’America credere alla versione dei tabloid. Il marito europeo gelido e crudele (con padre nazista) che le inietta un’overdose d’insulina per ucciderla, lei che non muore ma resta in coma, unica testimone ma incapace di comunicare. Tentato omicidio? Tentato suicidio? Una messinscena per incastrare il marito?
Von Bülow fu condannato nell’82 ma tre anni dopo, in appello fu giudicato non colpevole. Un processo clamoroso che fece di Von Bülow il mostro che l’aveva fatta franca, del suo avvocato una rockstar (Alan Dershowitz, professore di Harvard che nel corso degli anni ha difeso anche OJ Simpson), e che fu tramutato in un film di successo.
Il mistero von Bülow, con Jeremy Irons nei panni di un sarcastico, classista, glaciale Claus e Glenn Close nei panni di Sunny. Sunny narratrice del film, che ci parla da un mondo di mezzo, dalle tenebre del coma irreversibile, e ci racconta tutto tranne l’unica cosa che vogliamo sapere, il nome del colpevole (la sceneggiatura di Nicholas Kazan è un libro di testo per chiunque voglia scrivere un film).
Claus Von Bülow fu accompagnato dall’assoluzione – o meglio dalla non-condanna, l’America si era fatta un’altra idea – fino al giorno della sua morte, dal fantasma di Sunny. Che è morta anche lei, ma nel 2008, dopo 28 anni di coma irreversibile, truccata e pettinata alla perfezione come piaceva a lei.
In questi anni di autoesilio non sembrava neanche tanto invecchiato, a parte il bastone da passeggio molto aristocratico, la figlia Cosima (sposata con un italiano) sempre al suo fianco che aveva creduto alla sua versione. O meglio alla versione di Dershowitz nel secondo processo: la prova decisiva, la siringa dell’insulina, aveva un ago strano. Ancora sporco di insulina. Il problema? Sfilando l’ago dalla pelle dopo l’iniezione, il contatto con i tessuti avrebbe dovuto ripulirla, l’insulina. Invece c’era ancora. Come se qualcuno, in casa, quel 21 dicembre 1980, avesse lasciato accanto a Sunny in overdose (non necessariamente di insulina, testimoniarono otto professori universitari chiamati da Dershowitz) una siringa intinta apposta nell’insulina. Per incastrare qualcuno.
Verità? Bugia?
Von Bülow non si curò mai dei colpevolisti (erano e sono milioni). Sempre – noblesse oblige – con il sorriso gelido con il quale tanto tempo fa aveva risposto «un metro e novanta, esclusa l’aureola» a un cronista che chiedeva quanto fosse alto.