la Repubblica, 1 giugno 2019
Intervista a Andrew Sean Greer
LONDRA – Il Premio Pulitzer 2018 ha «due o tre romanzi inediti che non pubblicherò mai». E perché, Andrew Sean Greer? Dopo il celebrato Less e la sua notorietà, ora potrebbe venderli facilmente. «Perché li ho scritti prima del mio romanzo d’esordio, e sono brutti, insulsi, non li sento miei. È fantascienza universitaria, niente di che. Il mio agente non è riuscito a venderli in passato e non lo farò adesso». Non che Greer, nato a Washington nel 1970, abbia avuto più fortuna per il romanzo di esordio, La via dei pianeti minori, che in America venne pubblicato la settimana dopo l’Undici settembre 2001. «Nessuno era interessato alla narrativa, tantomeno alla mia. Scomparve nei tormenti e nel caos post attentato». Ma la Nave di Teseo l’ha riscovato e ora è nelle librerie italiane. È l’acerbo ma già sontuoso Greer, autore nel frattempo di almeno altre tre notevoli opere: Le confessioni di Max Tivoli, Storia di un matrimonio e Le vite impossibili di Greta Wells. La via dei pianeti minori, invece, è la storia di Eli, Kathy, Denise, il dottor Swift, il dottor Manday, le cui storie, gli amori, i tradimenti si intrecciano ritualmente dal 1965 su una isoletta del Pacifico sotto osservazioni scientifiche di comete e altri astri, che segnano la loro vita sconvolta già dalla morte di un bambino. «Finalmente il mio primo romanzo avrà lettori non distratti», auspica Greer. E che cosa ha provato a risfogliarlo? «Di solito gli scrittori non devono mai rileggere le proprie opere. Ma mi è capitato per caso tra le mani qualche mese fa e ho provato una strana attrazione. Forse perché è un vecchio amore nostalgico, o forse perché avevo dimenticato la sofferenza di scrivere». Perché lei, all’epoca, dopo l’università, faceva ogni tipo di lavoretti, dal cameriere all’autista di limousine. «Già. Scrivevo nelle ore libere e piccole. Era passato tanto tempo da quando, a 16 anni a Washington, avevo visto il manifesto di un concorso letterario per giovani scrittori, scrissi segretamente quasi 200 pagine e...». E lo vinse. «Macché. Da quella prima, dura sconfitta è nata la mia compulsione per la scrittura, poi tramutatasi in un piacere illegale, tremendo, ma estremamente eccitante. In quella circostanza ho imparato anche la disciplina, nonostante fossi un tipo molto arrogante, anche a causa dei miei genitori scienziati, e dunque arroganti. Mentre scrivevo La via dei pianeti minori non arrivavo a fine mese. Poi, certo, col tempo sono stato fortunato perché qualche editore ha avuto fiducia in me, ma soprattutto ero convinto che ce l’avrei fatta». Perché sino a quel momento non aveva ingranato? «Perché ero arrogante. E così non sapevo scrivere comicità senza essere crudele, oppure sofisticato senza essere troppo serio. Ma con la maturità e l’umiltà sono riuscito a miscelare queste qualità». Anche per questo poi ha raccontato spesso storie piccole, quasi insignificanti? Le “minuscole follie nascoste nelle persone semplici”, ha detto una volta. «Sì, e in questo Marcel Proust è stato il mio maestro per eccellenza. Mi hanno sempre emozionato terribilmente i personaggi secondari nei romanzi, perché sono liberi dalla trama ma allo stesso tempo possono sorprenderti, come quando al ristorante il cameriere diventa all’improvviso una persona. Anche se preferisco mangiare al bancone perché voglio ascoltare le storie dei baristi e degli altri clienti: le persone ordinarie rivelano i loro segreti soprattutto agli sconosciuti». Lei quanto è cambiato dopo il Pulitzer? «Hai meno paura di sbagliare, più fiducia. Ma la fiducia in se stessi mi inquieta, evito quelli che non hanno mai dubbi. Per il resto, non mi spaventa più lo scorrere del tempo, a differenza di quando ero più giovane. E poi è cambiata l’ironia». Che è alla base del suo romanzo Pulitzer “Less”, viaggio e commedia di un tormentato scrittore gay di mezz’età. «Già. In passato per me l’ironia era un mezzo di autodifesa. Ora invece un sintetizzatore per elaborare ansia, paure, preoccupazioni. L’ironia è una delle cose più difficili da maneggiare, come insegna Graham Greene». Lei ha un grande rapporto con Firenze e con l’Italia, dove è stato nominato direttore della Fondazione Santa Maddalena. «L’Italia mi ha fatto capire quanto noi scrittori americani siamo troppo focalizzati sulla letteratura Usa, sulla nostra lingua e sul presente, ignorando il passato. In America, soprattutto a New York, si pensa soltanto alle nuove uscite». Lei si è trasferito a San Francisco da molti anni. Celebri autori “locali” come Lawrence Ferlinghetti e Gary Snyder hanno sempre detto che è sulla West Coast che prolifera la vera letteratura americana. «Assolutamente sì. Sulla West Coast leggiamo libri, non “parliamo di romanzi” come sulla East. Sulla West non abbiamo mai avuto grandi case editrici, abbiamo sempre dovuto lottare per fare letteratura. Sulla West Coast non abbiamo il gossip, i “book party”, Twitter, lo status sociale che sono imperanti a New York. Ferlinghetti sa che la tradizione occidentale americana è unica e deve essere tramandata. E presto lo farò anche io, anche se ho solo 48 anni: come Ferlinghetti, inizierò a tramandare l’eredità della tradizione letteraria californiana ai giovani scrittori. Mi sentirò un po’ più vecchio e meno competitivo, ma ne varrà la pena».