la Repubblica, 1 giugno 2019
La rivolta in Sudan è scoppiata per un panino
ADBARA (SUDAN) – All’incrocio fra viale dei Martiri e via del Porto, proprio sotto il baretto con le insegne della Pepsi-Cola, i resti di uno pneumatico bruciato sono l’ultima testimonianza dello scontro fra polizia e cittadini. È qui, all’angolo del liceo femminile, che la popolazione dei quartieri di tradizione comunista ha visto gli agenti trattare rudemente le studentesse e ha reagito schierandosi con i ragazzi. È qui, nella città ribelle a nord di Khartoum, che la rivolta del pane e del falafel è nata, crescendo nella rabbia e diventando la rivoluzione del Sudan. Adbara segue con orgoglio ma anche con apprensione le notizie della capitale: in provincia l’ottimismo dei rivoluzionari si scontra con la presenza capillare delle forze di sicurezza, in attesa di una svolta nazionale, che continua a non arrivare. A Khartoum il braccio di ferro va avanti, con i militari che tengono duro, poco disposti a cedere il potere alle organizzazioni della società civile e anzi apparentemente pronti a irrigidire le posizioni: ieri il generale Bahar Ahmed Bahar, responsabile della regione della capitale, in un discorso trasmesso alla tv di Stato ha definito «una minaccia alla stabilità» l’accampamento dei contestatori accanto al quartier generale della Difesa. L’alto ufficiale ha sottolineato che un camion delle Forze di supporto rapido è stato assalito e sequestrato dai civili. È incontestabile che i paramilitari delle Rsf, di fatto trasformati da Omar al Bashir in Guardia presidenziale, siano poco amati al sit-in della protesta, anche perché fra le loro file sono presenti molti fedelissimi del vecchio regime, disponibili se non ansiosi di usare la forza. In altre parole, più che una presa di posizione quella del Consiglio militare di transizione suona come un monito: bisogna trovare un accordo di compromesso per gestire l’uscita dal periodo di Bashir, o si va allo scontro. Ma né lo stallo nelle trattative, né le minacce di repressione sembrano sufficienti a fermare la “primavera sudanese”. Ad Adbara, fra mille prudenze e richieste di anonimato, la storia della rivolta comincia a diventare una leggenda. Tutto è partito il 19 dicembre alla pausa delle nove del mattino, quando gli studenti dell’Istituto tecnico, in aula dalle 6.45, hanno scoperto che non si potevano più permettere la colazione. Dopo due ore di lezione sui numeri di Ossidazione, racconta il professore di Chimica, otto giovani sono usciti per comprare da mangiare. Ma li aspettava una sorpresa: il tradizionale panino con la polpetta di fave era raddoppiato di prezzo, da 10 sterline era salito a 20 (40 centesimi di euro). Il venditore ha dato la colpa ai forni: il costo del pane era triplicato. La farina era poca, eppure la zona di Adbara è considerata il granaio dell’intero Sudan. «Peccato che poi tutto il prodotto debba essere portato a Khartoum. E da lì ne torna solo una minima parte», dice un abitante irritato con la capitale. Anche per i ragazzi i motivi di fastidio non mancavano: gli studenti della Nile Valley University, proprio accanto all’Istituto tecnico, avevano la colazione ai prezzi di sempre. Ma quello, dicono in città, è un ateneo politicizzato, con giovani di famiglie importanti. Adbara non è una città povera: è il centro della corsa all’oro sudanese, come ricordano i giganteschi setacci inclinati per la sabbia aurifera, esposti sulla piazza. Ma le tasche degli studenti sono vuote, come ovunque. «Abbiamo pensato: se mangiamo oggi non mangiamo domani», racconta uno degli otto giovani che hanno dato il via alla protesta. A 19 anni ha diritto di essere un po’ intimorito, e parla solo nel chiuso della sua casa, sotto un tetto di lamiera scosso dalle vibrazioni del ventilatore da soffitto. «Volevamo fare una protesta pacifica. No, non ci ha neanche sfiorato il pensiero di una “primavera sudanese”, l’idea era solo di manifestare il disagio». Il vialetto dell’istituto tecnico passa fra le bouganville, sotto gli eucalipti, e porta a un cancello un po’ scrostato. Dall’altra parte della strada c’è lo studio di una tv, che aspettava l’inaugurazione alla presenza dell’ex presidente Omar al Bashir e oggi prende polvere. «Quando i ragazzi sono usciti gridando slogan, la gente della città ha pensato: questi finiscono male», racconta un funzionario dei servizi di sicurezza. Ma Adbara non è un posto qualsiasi. Il ponte della ferrovia, appena a cento metri dalla scuola, è un simbolo. Proprio qui nel 1984 Jaafar an-Nimeiry, l’uomo forte del Sudan arrivato al potere con il golpe del ‘71, invece che da funzionari cittadini fu accolto da un gregge di capre. I militanti comunisti avevano sparso mangime per attrarre gli animali e umiliare il presidente, che se ne tornò a Khartoum, per poi essere deposto un anno dopo. Al primo drappello di ragazzi che contestavano si sono presto aggiunti quelli di altre scuole. Arrivati agli uffici governativi, i giovani hanno denunciato il problema. Il funzionario locale, evidentemente poco attento all’esempio di Maria Antonietta, ha risposto con sufficienza. Anche il governatore regionale, impegnato in una cerimonia nella vicina Al Damir, ha sottovalutato la protesta: «È solo un gruppo di ragazzini». Ma quando il corteo si è inoltrato sulla via del Mercato, fra le macellerie con gli agnelli appesi ai ganci e i banchi di pomodori, meloni e manghi, la gente della città si è schierata con la sua gioventù, al grido di «Adbara è sorta, è in cielo». E i pochi poliziotti disponibili si sono accorti tardi che la dotazione di gas lacrimogeno era scaduta, e dunque inefficace per sgomberare le strade. In poche ore gli uffici governativi e la sede del partito di Bashir erano in preda alle fiamme. Quando il governatore ha chiamato la polizia di Al Damir, i contestatori hanno reagito bloccando la strada che collega i due centri e dando fuoco agli edifici governativi dell’altra città, rimasta senza protezione. E ad Adbara un mulino è finito in cenere, così come la sede del partito dell’ex presidente. «Quando c’è stata la prima vittima, un giovane di nome Tareq, la rivoluzione è divampata, ed è arrivata subito a Khartoum», rievoca il funzionario dei servizi. Ma ancora adesso l’orgoglio della città ribelle non è esaurito. Alla sera i pochi studenti che non hanno raggiunto il sit-in nella capitale si affacciano, circondati da agenti della sicurezza, con tamburi e slogan sulla via del Mercato. Si fanno largo fra scooter indiani Bajaj e motocarrozzette, gridando a voce alta: «La rivoluzione non è ancora finita». Viaggio ad Adbara, a Nord di Khartoum, la prima città a ribellarsi a Bashir. Ora l’esito della rivoluzione è incerto, ma la gente non si arrende