ItaliaOggi, 31 maggio 2019
Egitto, addio al velo integrale
L’Egitto è paese chiave del Medio Oriente. Il più importante sul piano geopolitico. Controlla l’accesso al canale di Suez (anzi ai canali, visto il recente raddoppio), da cui transitano gran parte delle merci prodotte in Asia, destinate ai mercati europeo e nord africano. E viceversa. Contribuisce alla stabilità della regione, dopo la pace con Israele e l’asse stretto con i sauditi. Combatte in trincea le infiltrazioni Isis nel Sinai, ancor più invasive dopo il collasso dello stato islamico. Tutela la libertà di culto della minoranza copta (oltre un decimo della popolazione, ma è meglio non dirlo troppo forte).Un gigante geopolitico dicevamo, la cui stabilità non è negoziabile per gli interessi occidentali. Eppure, un colosso dal volto ambiguo e dai piedi d’argilla, i cui abitanti, ai miei occhi di europeo, sono apparsi orfani di vitalità. Come se la repressione militare, l’illusione della rivoluzione tradita e una ritualità cadenzata da richiami senza sosta alla preghiera, li costringessero in una spirale che li svuota di energia.
A dieci anni dalla mia ultima visita al Cairo avvenuta nel 2009, quando ancora la presidenza era in mano a Hosni Mubarak e nulla faceva pensare che il suo crepuscolo fosse di lì a breve, sono tornato lungo le sponde del Nilo, a perdermi nel dedalo di vicoli della megalopoli egiziana. Da allora, il paese ha assistito a una rivoluzione, detta «primavera araba», culminata nell’ascesa al potere della Fratellanza musulmana, a lungo fuorilegge dopo l’assassinio di Sadat.
Poi, dopo appena un anno di governo islamista targato Muhammad Morsi e condito da riforme costituzionali ispirate alla «sharia», la restaurazione ad opera dell’unico vero potere del paese: l’esercito, che ha strappato l’Egitto alla deriva islamista in un bagno di sangue. Infine, la stabilizzazione sotto il maglio dell’attuale presidente Abdel Fattah al Sisi, già capo dei servizi segreti militari per volontà di Mubarak e al vertice delle forze armate e della difesa sotto il governo Morsi. Bene, a 10 anni di distanza dal mio ultimo viaggio, dicevamo, calpestando i ciottoli non battuti dai turisti occidentali, ho trovato un paese più povero, timoroso e contraddittorio di allora.
Ho girovagato quattro giorni, salendo su una trentina di taxi, tutti con radio accesa e Corano sul cruscotto. Non ho sentito una sola nota di musica occidentale. Solo sure e qualche raro motivo mediorientale. Certo, siamo in pieno Ramadan, ma il divertimento secondo gli stilemi occidentali appare bandito. Facendo zapping, in ore diverse del giorno e della notte, su sei canali nazionali non ho mai incrociato un telegiornale, ma tante «musalsal», le tipiche soap opere arabe per cui l’Egitto vanta la nomea di Bollywood del mondo arabo.
Come due lustri fa il paese è militarizzato. Soldati ovunque, a gruppi di tre a guardia di uffici governativi, ambasciate, siti turistici, angoli di strada. Oggi come allora, l’impressione che si ha nell’osservarli è di trovarsi in un paese intrinsecamente anarchico, in cui l’esercito è un ammortizzatore sociale: l’ambìto «postificio» nazionale. Militari di guardia riversi per ore sulle sedie, sonnacchiosi ad aspettare il tramonto o ricurvi sui cruscotti delle auto, con lo sguardo ingoiato dai telefonini.
Le divise, va detto, sono migliorate: bianche, più pulite. I passanti, invece, si tengono alla larga dai marciapiedi (quasi tutti divelti) della città; nel percorrerli si rischia di inciampare nei gamboni divaricati della milizia. O di cascare ogni due per tre sulle sedie dei «bauab»: gli scuri portinai in djellaba (tunica) grigia e turbante bianco, quasi tutti saidi (dell’alto Egitto), accovacciati di guardia nei portoni. Al Cairo il concetto di manutenzione non è di casa neppure negli stabili di lusso.
Le ambasciate, invece, raccontano di un paese ad alto rischio di attentati. Rispetto all’era Mubarak molte sono state concentrate sull’isola di Zamalek. Le più importanti (considerate target della furia islamista, come le ambasciate russa, americana, pakistana e anche italiana) sono nascoste alla vista da spessi muraglioni in cemento armato alti tre metri. I varchi, serrati da enormi porte scorrevoli blindate. Anche l’iconica piazza Tahrir cuore della rivoluzione, è divenuta un respingente spartitraffico.
C’è poi un altro elemento di discontinuità rispetto all’egemonia Mubarak. A fine 2009 il Cairo pullulava di donne in niqab, il velo nero che le ricopre da capo a piedi, lasciando una feritoia per gli occhi. Molti uomini esibivano la tipica barba lunga salafita e ostentavano la zibibba, un’escoriazione rossa sulla fronte, che i fedeli più osservanti si procurano a dimostrare la continua preghiera verso la Mecca.
Oggi, invece, ho incrociato vis-à-vis meno donne in niqab delle dita di una mano. Le barbe lunghe sono una rarità e le moschee fai-da-te, che sorgevano ad ogni angolo di strada, sono sgradite al regime. Nella «Città dei mille minareti» il canto del muezzin ha un’eco più ovattata.
Ma è nella Cairo Islamica, il quartiere medievale che da Bab Zuwayla conduce a Bab al-Fotuh (due delle tre porte fortificate della città), che la capitale egiziana rivela gli angoli di degrado più sorprendenti. Edifici collassati, donne sedute su calcinacci a chiedere l’elemosina, tra i rifiuti.
Nelle strette vie, ricolme di polvere, avventori e mercanzie di ogni genere, sfrecciano i tuc tuc: piccoli tre ruote biposto, con autista. Interi complessi di architettura islamica, restaurati 15 anni fa coi fondi dell’Aga Khan Trust for Culture, sono ostaggio dell’incuria. Fanno il paio con i decadenti edifici neoclassici, eredità dell’impero britannico, che riempiono gli angoli più suggestivi del lungo Nilo. Persino nella centralissima «sharia (via, ndr) Champollion», nei pressi di piazza Tahrir, un enorme innesto di architettura mitteleuropea, il palazzo del Pascià Said Halim dell’irredentista sloveno Antonio Lasciac, è miseramente in abbandono: vetri rotti, porte sprangate, finestre divelte lasciano in ostaggio ai randagi saloni da 150 metri, androni e scalinate in legno e ghisa. L’Art nouveau tanto gradita all’aristocrazia egiziana d’inizio ’900.
Comunque, il progresso avanza. I taxi sono stati rinnovati, i bus sono più moderni e al salto, come quelli londinesi. Anche il parco auto è migliore. La metro è in espansione. L’aeroporto vanta nuovi terminal. La grande arteria di 50 km (che dall’hub aeroportuale solca i quartieri di Heliopolis e Nasr City e poi, in sopraelevata, il centro città, passando tra gli alveari grigio cenere dei sobborghi) non è più puntellata da militari in vedetta, sigillati in roventi torrette metalliche. Quei trespoli hanno lasciato il posto a una sfilza di enormi schermi a led, che proiettano colorate réclame e annunci immobiliari della Nuova Cairo; la smart city per benestanti e istituzioni in costruzione.
Quindi, i rifiuti: dieci anni fa, per le strade girovagavano stanche ombre in cenci, che al traino di un carretto raccoglievano scarti dai palazzi. Erano i cosiddetti «zebelin», raccoglitori di spazzatura (in maggioranza cristiani), che abitavano tra i loculi della «città dei morti», al-Qarafa, la necropoli cairota. Oggi, gli zebelin sono organizzati: hanno mezzi di raccolta e vestono giubbetti rossi.
In trincea resta la ghinea egiziana, fortemente svalutata su richiesta del Fondo monetario internazionale; vale metà di quanto valeva nel 2009. Alle porte potrebbe esserci un ulteriore aumento dei prezzi; timore che gli egiziani rivelano a mezza bocca, lontano da occhi indiscreti. Anche i giornalisti stranieri, che da Mubarak si sentivano protetti sebbene sorvegliati, oggi lesinano le parole. I tassisti, invece, ti avvertono: guai a fotografare in corsa la città. Rischiano la licenza e una sonora lezione corporale. Comunque sia, rispetto a un decennio fa gli europei latitano e nella popolazione c’è poco interesse verso i visitatori. Per le strade diversi spagnoli e americani, pochi francesi, pochissimi italiani e plotoni di indonesiani, attratti dai corsi di scuola coranica presso la moschea di al-Azhar, cuore teologico dell’universo sunnita. E poi cinesi, tanti cinesi, che 10 anni fa neanche l’ombra.