Il Messaggero, 31 maggio 2019
La moda politicamente scorretta
Stagione complessa questa per Gucci. La sfilata autunno/inverno si è rivelata un campo minato in tema politically correct: quello che doveva essere solo un accessorio bizzarro, un turbante azzurro, ha suscitato le ire della Sikh Coalition per appropriazione culturale di articolo religioso. Prima era toccato a un maglione nero dal collo così alto da coprire metà viso e un taglio ad altezza bocca circondato di rosso: un tweet aveva sottolineato quanto richiamasse il blackface, ovvero il modo in cui negli anni Trenta dell’Ottocento i bianchi si travestivano da neri per ridicolizzarli. Qualche hashtag ben piazzato e il problema si è fatto virale, nonché cruciale per la griffe, tanto che Gucci, tramite l’amministratore delegato Marco Bizzarri e il direttore creativo Alessandro Michele, si è affrettata a scusarsi e ha annunciato l’assunzione di direttori globali e regionali per l’inclusione oltre che un fitto programma multiculturale di borse di studio di design.
GLI ABUSI
Da Louis Vuitton hanno bloccato la produzione della t-shirt con la stampa del passo di danza di Michael Jackson: pochi giorni dopo la passerella il cantante è stato accusato di abusi sessuali a danno di minori. Il marchio ha preso le distanze e il direttore creativo Virgil Abloh ha chiesto il perdono (mediatico). Un copione ben collaudato dalle case di moda quando sul web i paladini delle rivendicazioni sociali fustigano sui social costumi e mode accusate di appropriazione culturale, razzismo o istigazione al suicidio. Eccessivo? Molto spesso sì, soprattutto per la nostra mentalità ben diversa da quella americana. Il primo passo è la rapida sparizione dell’abito o accessorio incriminato. Poi, scuse diramate con comunicati, mail, post e video sui social. Si può cercare ovunque, ma non esiste nemmeno più traccia fotografica di un outfit Burberry andato in scena durante l’ultima fashion week londinese. I lacci del cappuccio della felpa ricordavano un cappio intorno al collo: il designer Riccardo Tisci e l’amministratore delegato Marco Gobbetti non hanno potuto far altro che chinare il capo. Prada si era mossa per tempo con il Consiglio consultivo Diversity and Inclusion, finalizzato a promuovere tirocini e apprendistati nelle diverse comunità e ampliare le possibilità nella moda per gli studenti neri. Nulla di casuale: a dicembre l’azienda italiana era stata accusata di razzismo per i suoi Pradamalia, oggetti decorativi che sembravano una caricatura offensiva delle persone di colore. In un mercato sempre più globale, non sono gli unici esempi di debacle.
Se gli spot sessisti e razzisti in Cina a firma Dolce&Gabbana hanno fatto storia, la rete ricorda ancora la collezione inneggiante al colonialismo di Big Uncle nell’estate 2018 e, nel gennaio dello stesso anno, la felpa di H&M che con la sua scritta sembrava associare il bambino nero che la indossava a una scimmia. Modello di colore e polemiche, anche per Asos e la sua maglietta con la stampa Slave (schiavo), mentre furono ugualmente ritirate subito dal mercato le sneaker con manetta ai piedi di Jeremy Scott x Adidas. Gogna mediatica per la camicia Mango del 2014 con stampa di piccoli fulmini uguali al simbolo delle SS e per la maglia di Zara con la stella gialla degli ebrei nei lager. DSquared 2 per l’autunno/inverno 2015/16 pensò (male) di chiamare la sua collezione Squaw,- termine dispregiativo per indicare le native americane.
IL CARATTERE
«È difficile non cadere in uno di questi errori – spiega Paolo Ferrarini, docente all’università di Bologna e membro della commissione Mibac per la valorizzazione della moda – Il politically correct non esiste più: stare nei suoi stretti confini vuol dire non dare fastidio a nessuno, ma anche non avere carattere. La moda si è affacciata a nuovi mercati e deve avere argomenti forti da comunicare su più livelli, così l’incidente diplomatico è dietro l’angolo». La vera differenza è nella capacità di reazione: «I marchi culturalmente rilevanti sono in grado di instaurare un dialogo, ammettendo l’errore e correndo ai ripari. Gli altri fanno solo vestiti. Trovo che negli ultimi tempi il sistema si stia rimettendo al passo coi tempi: dopo un recente passato in cui le griffe si occupavano solo di estetica, sembra stiano guardando maggiormente alla società». Con gli onori e oneri che comporta.