Libero, 31 maggio 2019
Elogio dei popoli primitivi
Aver fede è credere in qualcosa che non si vede ed è un’impresa titanica – non fidatevi di quelli che dicono che la fede è dono e consolazione, «o sospetterò che non capite», scriveva C.S. Lewis in Diario di un dolore – ma averne in qualcosa che si vede ma in cui non c’è niente, è per folli e per pochi, antichi visionari. Questo qualcosa è il deserto del Kalahari, “Terra della Grande Sete”, e gli uomini di cui parliamo sono i boscimani, forse il popolo più primigenio della terra, ultimi cacciatori-raccoglitori del pianeta, inesausti camminatori, scopritori, abitatori del terribile, sesto deserto del mondo. A raccontare questa antichissima storia di lealtà tra uomo e terra – i boscimani vivono tra Botswana, la Namibia e il Sudafrica da oltre ventimila anni – è stato nel 1961 Laurens van der Post, scrittore ed esploratore sudafricano di origini boere, nel saggio ora pubblicato da Adelphi Il cuore del cacciatore (traduzione di Francesco Francis, disegni di Maurice Wilson, pp. 287, 24 euro). Tra infami condizioni ambientali, arbusti secchi, temperature insopportabili e introvabili fonti di sostentamento, con in più le incursioni di europei e tribù di origine bantu, insediatisi nell’Africa australe nel corso degli ultimi quattrocento anni, questi esseri umani primitivi, invece di estinguersi, hanno realizzato il comandamento che gli occidentali postmoderni chiamano “resilienza”: se la vita ti dà un limone, fai una limonata. O, come è più nobilmente scritto nell’esergo del libro: «Anche qui nel deserto ho visto Dio e ho vissuto secondo la mia visione», Agar, Genesi 7,12.
SCIENZA E AFFETTO
La fissa dell’autore per questo popolo, i Khoi-San, chiamati “boscimani” per l’influenza dell’inglese “bushmen”, uomini della boscaglia, è trattata da un lato con la scientificità dell’antropologo, dall’altro è mossa dall’affetto: nato nel 1906 nell’allora Stato Libero dell’Orange, l’odierno Sudafrica, l’esploratore venne cresciuto da una donna boscimana. Il volume ora in libreria è la prosecuzione di un altro studio, Il mondo perduto del Kalahari, diventato una serie trasmessa dall’emittente inglese Bbc, nel quale lo studioso dava «un resoconto dello sterminio di quella stirpe di piccoli cacciatori e pittori rupestri perpetrato da invasori». Van der Post, e noi con lui, si interroga di come, nonostante «il destino e le circostanze, per quanto miserevole fosse lo scampolo di vita che gli (al boscimano, ndr) era stato concesso, quella vita per lui continuava ad avere valore e a meritare che si lottasse per lei». Perché «una tale aristocrazia dello spirito avrebbe dovuto da sola risvegliare l’attenzione di tutti in un’epoca in cui l’uomo, nonostante i vantaggi e le comodità, vive un tale tracollo del valore della vita che è sempre più incline a togliersela».
LEZIONI DI GUIDA
Ecco quindi che il viaggio di Van der Post, insieme con sette accompagnatori più l’interprete Dambé, un anziano boscimano “domestico” («la sua faccia era tutto un intrico di rughe e di pieghe sottili»), diventano lezioni di guida anche per gli odierni europei: antichi, pressati dall’immigrazione e dall’invasione economica noi, ex coltivatori cacciati dalle loro terre e costretti al nomadismo loro. Le lezioni di guida che in questo libro un popolo primitivo può impartire a una cultura in decadenza sono tre: adattarsi e non perdere le proprie radici, le tradizione e la memoria. I boscimani infatti sono rimasti popolo perché non hanno mai messo in discussione la loro identità e hanno conservato la loro cultura, aggrappandovisi come ci si aggrappa a un albero. Lezione numero tre: negando se stessi non si diventa né migliori né qualcun altro, si diventa nulla. Che il testo sia stato scritto negli anni dell’apartheid sudafricano, e che Adelphi abbia deciso di mettercelo tra le mani oggi, non lasciamolo al caso: l’autore ricorda al lettore che i boscimani insegnano che «la piena realizzazione di noi stessi inizia col riconoscere ciò che non siamo». Per farlo, basta seguire la luce che c’è, racconta l’autore, e anche quella che non c’è: i boscimani sono «coloro che seguono la luce», ovvero i fulmini, e quindi la pioggia, che è la vita. E ricorda una storia delle Upanishad, i testi religiosi e filosofici indiani, in cui si narra la storia del saggio Yajnavalkya alla corte del re: «Con quale luce gli esseri umani escono, fanno il loro lavoro?», chiede il sovrano, «Con la luce del sole». «E quando il sole è tramontato?» – «Con la luce della luna». E così via: quando la luna è tramontata ci sono le stelle, e quando quelle si spengono c’è la luce del fuoco. «E quando anche il fuoco è spento?», chiede il re. «Alla luce del suo Sé».