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 2019  maggio 31 Venerdì calendario

Intervista a Marco Bellocchio

Marco Bellocchio, Il traditore ha già superato i 2 milioni di euro al botteghino.
Un ottimo esito. Ho fatto film con un buon impatto al box office, ma nulla di paragonabile, almeno da Buongiorno, notte nel 2003. Peraltro, mi dicono il risultato de Il traditore sia nettamente superiore, e in un’epoca di cinematografi deserti.
Come se lo spiega?
La Storia – non la insegnano più a scuola, assurdo! – attrae, le parole tradimento, mafia anche. Poi, c’è Pierfrancesco Favino, un attore molto popolare che ha un ruolo perfetto. Si temeva la lunghezza (due ore e 25 minuti, ndr), invece no. Però sono mancati i premi a Cannes.
Non è una novità: è stato in concorso sette volte sulla Croisette, senza mai vincere. L’importante è partecipare, ma…
Non credo in maledizioni… dico la verità, pensavo… Forse conta anche il numero di partecipazioni, non che mi aspettassi un riconoscimento, però, Il traditore è stato bene accolto, anche dalla critica internazionale… (ride). Tanti miei lavori sono stati apprezzati in un secondo tempo, solo Gian Luigi Rondi – critico molto acuto, ma di destra e poi più di centro ed ecumenico – si batté e fece premiare i due attori (Michel Piccoli e Anouk Aimée, ndr) di Salto nel vuoto, Cannes 1980. Parlare di patria oggigiorno è un po’ pericoloso, però è chiaro che da giurati bisogna essere diplomatici oppure dire “a me piace quel film e basta!”.
Se n’è fatto una ragione?
Vicino agli 80 anni (il 9 novembre prossimo, ndr) lo ritengo un messaggio positivo: magari non tornerò più a Cannes, ma io non mi arrendo, non tanto per avere la patacca, bensì per continuare a fare cinema. Non sono mai stato di moda, non mi sono mai schierato con il potere: ho sempre rivendicato un certo anarchismo moderato. Sono stimato, molto, ma rimango fuori dai giochi, in campo autonomo.
In realtà, una “patacca” l’ha avuta: la menzione speciale della Giuria ecumenica, che dovette sorvolare sulla bestemmia, a L’ora di religione nel 2002.
Lo capirono più di altri, sarà l’attrazione degli opposti.
Ne Il traditore non ha ceduto alle lusinghe e ai parametri del “mafia-movie”.
Dovevo trovare la mia strada, cose che mi appartenessero in un tema e un soggetto lontani da me. Per i delitti ho cercato l’essenzialità e la rinuncia ai famosi punti di vista, per le grandi sequenze processuali il registro da teatro d’opera, un tragico grottesco: forme e sguardi personali.
Il critico del Village Voice, Bilge Ebiri, consiglia di doppiarlo in inglese, distribuirlo come Il Padrino – Parte IV e farci un sacco di soldi.
(Ride) Francis Ford Coppola è un riferimento, nella Parte III c’è l’opera lirica, io avrei voluto inserire la Cavalleria rusticana. Quando vidi la trilogia, rimasi profondamente coinvolto, gli stessi mafiosi lo prendono a esempio.
Bellocchio, che cosa ha riconosciuto in Buscetta?
Mi sono agganciato al titolo, non c’era spazio per dilemmi nevrotico-psicologici. Masino era un traditore di retroguardia, nella mia esperienza personale e culturale ci sono traditori che cercano di cambiare il mondo, di ribellarsi. Io stesso mi sono ribellato all’educazione cattolica: tradimento come affermazione di identità e rifiuto. Rispetto alla politica, poi, non ho rinnegato certi principi di sinistra, ma c’è stata una separazione: non sono mai stato complice né ho bordeggiato il terrorismo, però l’ho visto, anche in soggetti che ho conosciuto. In Buongiorno, notte ci sono riferimenti biografici.
Due tradimenti li ha confessati, il terzo è nei confronti dello psichiatra Massimo Fagioli, già suo intimo e assiduo collaboratore? 
Non tradimento, ma fraintendimento. L’incidente è preciso: quando ricevetti il Leone d’Oro alla carriera (alla 68esima Mostra di Venezia nel 2011, ndr), volontariamente pensai di non citare Massimo Fagioli nei ringraziamenti, per riconoscere – non che volessi negare partecipazione e collaborazione – a me stesso una libertà. Da Fagioli e dai fagiolini venne interpretato quale ingratitudine estrema, tradimento, ma io non stavo annullando un’esperienza, me ne stavo separando.
Che un autore alla soglia degli 80 anni realizzi due film su commissione non sorprende anche lei?
È come se soggetti più autobiografici – I pugni in tasca, L’ora di religione e Il regista di matrimoni – volessero racconti più brevi, cechovianamente parlando. Sicché questi due ultimi mi sono stati suggeriti dallo stesso produttore, Beppe Caschetto, che mi ha lasciato la più ampia libertà: in Fai bei sogni, senza entrare nel giudizio del libro (Massimo Gramellini, 2012, Longanesi, ndr), vidi la possibilità di trarre un racconto personale. Sempre Caschetto ora mi dice: “Perché non facciamo un film sul processo di Norimberga?”. È un bellissimo soggetto, ma ci vuole l’idea buona, dev’essere un film internazionale. Voglio farlo, se vengo sollecitato…
Esterno notte, la serie su Moro, è ancora in piedi?

Sì, se il produttore Lorenzo Mieli non mi tradisce (ride). È un ribaltamento di campo, interessante, rispetto a Buongiorno, notte: la prigionia vista dall’esterno, una serie in sei puntate. Siamo ai soggetti, vanno affrontate alcune scelte: come rappresentare i personaggi, combinare repertorio e finzione, adattare le conversazioni private.
Lei è tendenza Riina, “meglio comandare che fottere”, o Buscetta, “meglio fottere che comandare”?
Meglio fottere, nel senso di vivere. Sono una persona piuttosto introversa, a Buscetta piacevano il casino e le donne. Comandare… non bisogna essere ipocriti, il mio ruolo è anche di comando, ma il potere… io verso i padri ho sempre avuto un’insofferenza. Pur essendo uno che deve comandare, mi sento più naturalmente vicino a chi non comanda. Mi viene in mente T.S. Eliot, The Love Song of J. Alfred Prufrock: “No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be; Am an attendant lord”. Non sono Amleto, non sono nato per esserlo, sono un assistente.