la Repubblica, 31 maggio 2019
Cdp, così nasce la nuova Iri
"Operazione Capricorn": ai meno giovani poteva ricordare il titolo di un film del 1978. “Capricorn one” raccontava la storia della messinscena mondiale di una finta missione su Marte. E chissà se proprio per questo aveva quel nome il piano per ridurre il debito pubblico che piaceva così tanto a Matteo Renzi da rivendicarne la paternità. Dell’ “Operazione Capricorn” conosciamo invece con certezza l’autore. Si chiama Fabrizio Palermo e all’epoca dei fatti, un paio d’anni fa, era il capo della finanza della Cassa depositi e prestiti. Di cui oggi è amministratore delegato: nomina a cinque stelle non condivisa dall’azionista, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ma con la benevolenza del sempre più ingombrante alleato leghista. E ora quel piano rivendicato anche da Renzi potrebbe prendere finalmente corpo, con la razionalizzazione di molte partecipazioni dello Stato, sparse fra il Tesoro e la Cassa. Ma questo altro non è che la rinascita di qualcosa molto simile all’Iri.
La Cassa depositi e prestiti ha un attivo di 425 miliardi, un quarto del nostro prodotto interno lordo, e gestisce 342 miliardi di raccolta postale. Sono i risparmi di 27 milioni di italiani. La sua missione storica: dare mutui agli enti locali per fare scuole, ospedali, strade. Siccome però con tutti quei soldi poteva comprare le partecipazioni nelle imprese pubbliche che il governo fingeva di privatizzare per tappare i buchi di bilancio, è diventata un’altra cosa. Pian piano si è ritrovata in pancia il 26% dell’Eni, il 35% delle Poste, il 30% di Terna, il 26% di Italgas, il 30% di Snam, il 71% di Fincantieri, il 12% di Saipem. E poi la Sace, Fintecna, un pezzetto della Treccani e alcuni pesi morti immobiliari: tipo la prestigiosa ex sede del Poligrafico che da dieci anni non si riesce a vendere. Quindi il 10% della Telecom che lo Stato aveva privatizzato più di vent’anni fa.
Una macedonia quasi tutta quotata in Borsa e proliferata senza alcuna logica strategica. Ed ecco il sogno di “Capricorn": riassemblare nella Cassa le partecipazioni pubbliche secondo un disegno industriale. Un esempio? Fincantieri e Leonardo operano in campo militare e il coordinamento sarebbe essenziale. Ma Fincantieri è controllata dalla Cassa e Leonardo è del Tesoro. Mentre la logica del Capricorno le vorrebbe sotto una stessa holding. La Cassa, appunto. Anche perché solo la Cassa potrebbe affrontare eventuali aumenti di capitale per la crescita.
Allora perché non trasferirle anche altre partecipazioni del Tesoro, quali il 29% di Poste, il 4% di Eni o il 23% di Enel? Il che potrebbe succedere comunque, sempre per far tornare i conti. Il governo deve incassare 18 miliardi dalle privatizzazioni e nei primi 5 mesi non ha alzato un euro. Chi potrà tirarli fuori se non la Cassa, rilevando altre quote delle imprese di Stato in mano al Tesoro?
Palermo tiene a rimarcare che il nuovo piano industriale ha al centro il finanziamento agli enti locali e il sostegno alle imprese. Sottolineando il proprio ruolo di tecnico puro. Ma è un fatto che la Cassa rappresenti il cuore del nuovo interventismo pubblico. E che il rilancio dello statalismo sia tanto uno dei pilastri ideologici del M5S che gli ha affidato quell’incarico quanto un utile strumento per certi disegni leghisti.
Prendiamo l’ultimo caso. La crisi dei grandi costruttori angoscia il governo? Niente paura: ci pensa la Cassa. Con un aumento di capitale di Salini- Impregilo per rendere possibile l’accorpamento con Astaldi, Trevi (di cui la Cassa ha già il 17%), Condotte e forse pure Pizzarotti e altri costruttori ancora. Un salvataggio collettivo con la creazione di un gigantesco gruppo sotto l’ombrello pubblico. Se a questo si aggiunge un advisory hub con una cinquantina di ingegneri per affiancare gli enti locali nei progetti finanziati dalla Cassa, l’aroma dell’Italstat è ancora più forte. E ricordate quando c’erano i telefoni di Stato? Fino a pochi anni fa parlare di una rete telefonica pubblica era una bestemmia. Invece oggi, senza suscitare scandalo, la Cassa controlla il 50% di Open Fiber, società con l’Enel che fa la rete di fibra ottica e ha in ballo un faticoso negoziato per fondersi con la rete Telecom, di cui la medesima Cassa ha il 10%.
Rispetto alle epoche passate c’è però una differenza. Nel capitale di questa specie di nuovo Iri ci sono anche i privati, con il 16%. Le Fondazioni bancarie entrarono 15 anni fa anche per siglare la pace con il governo che minacciava di imporgli l’uscita dal capitale delle banche. Ma oggi il loro interesse principale è riscuotere i dividendi: quest’anno 400 milioni. Dunque non gradiscono le scorribande vecchio stile, tipo l’intervento nell’Alitalia che Luigi Di Maio aveva promesso ai sindacati.
Il loro guardiano è il presidente della Cassa, Massimo Tononi, designato dalle Fondazioni guidate fino a poche settimane fa dall’influente Giuseppe Guzzetti. Non mostra di avere nostalgia dell’Iri e le sue relazioni con Palermo sono gelide al punto da sfiorare le dimissioni.
Poi c’è Tria, che della Cassa è l’azionista. I due non si sono mai presi e nella prospettiva Capricorn non è un gran viatico. Tria gli avrebbe preferito Dario Scannapieco, ma è stato scavalcato dai vertici grillini. Da allora il filo diretto Palermo ce l’ha con il livello politico superiore. Ed è qui che adesso, dopo il boom leghista e il crollo grillino alle elezioni, le cose si potrebbero un po’ complicare: per quanto Palermo, da questo punto di vista, abbia dimostrato di essere sufficientemente scafato.
Quando il presidente cinese Xi Jinping è venuto qui si è premurato di annunciare l’emissione di 650 milioni di “Panda bond” per finanziare le nostre aziende in Cina. Un annuncio come altri in questo primo anno, con tanti segnali in direzione Capricorn: intese con Leonardo, progetti per l’energia dalle onde con Eni e Terna... Ma lo scossone più forte Palermo l’ha dato alla struttura. Gran parte della prima linea è saltata.
E non è finita, se è vero che ora si appresta a far saltare Alessandro Decio. L’amministratore delegato della Sace, società che assicura i crediti all’export, pensa che i 25 miliardi di garanzie per gli armatori stranieri che comprano le navi Fincantieri, gruppo al cui timone c’è da 17 anni Giuseppe Bono, cominciano a essere un po’ troppi. Perché su un’esposizione totale di 61,1 miliardi quei 25 (e rotti) fanno il 41,4 per cento. Ed è una concentrazione del rischio eccessiva, ritiene Decio. Argomentando che Palermo, quasi figlioccio di Bono che nel 2005 l’ha assunto alla Fincantieri dov’è rimasto dieci anni, sia persuaso del contrario. E quindi lo voglia silurare con l’idea che la Sace debba sostenere senza limiti le campagne estere delle imprese pubbliche italiane. Anche se Palermo afferma di rimproverargli proprio l’esatto opposto, ovvero che Sace non offrirebbe adeguato sostegno all’export delle piccole e medie imprese, favorendo invece le grandi, che in 7 assorbono l’80% dell’esposizione. Per questo dice di volerlo sostituire. Una disputa surreale, che si risolverà magari con l’arrivo di Andrea Pellegrini, esperto di investment banking amico di Palermo. Sempre che la prima ripercussione del ribaltamento dei rapporti di forza nel Palazzo non si avverta proprio qui.