La Stampa, 30 maggio 2019
La genesi dei nazionalismi 2.0
Quando rinascono i nazionalismi? Tutto, in un certo senso, inizia nel 1979, quando – col successo di Margaret Thatcher in Gran Bretagna – si impone il nuovo verbo politico-economico del neoliberismo. Ora, è sugli effetti a lungo termine delle politiche neoliberiste che dobbiamo concentrarci per capire le ragioni dell’emergere di un nazionalismo 2.0.
I dati disponibili ci dicono che le politiche neoliberiste hanno causato un vistoso aumento delle disuguaglianze all’interno dei diversi Paesi che le hanno adottate. Col crescere della disuguaglianza sono cresciuti anche numerosi altri segni di disagio sociale: nei Paesi dove la disuguaglianza è maggiore, la mobilità sociale è nettamente minore; cioè è più difficile per il figlio o per la figlia di una famiglia povera migliorare la propria condizione sociale o economica rispetto a quella dei genitori. E, allo stesso modo, dove la disuguaglianza è maggiore, maggiore è anche la criminalità, peggiori sono i servizi sanitari, più diffuse sono le malattie mentali o di altro genere.
In questi casi, il rapporto non deve essere considerato di tipo immediatamente causale. Cioè, non è possibile affermare che la maggiore disuguaglianza, di per sé, causa problemi sociali. Si deve osservare, invece, che la maggiore disuguaglianza è l’effetto di politiche economiche che ridimensionano la spesa pubblica, e quindi anche la spesa per i servizi sociali, rendendo peggiore la qualità di questi stessi servizi. Di conseguenza le famiglie più povere hanno a disposizione minori strumenti di assistenza sociale; peggiorano, dunque, le loro condizioni di vita, mentre aumentano le cause di disagio psicologico o fisico.
Chi è in difficoltà ha bisogno di risposte. E le trova dove lo storytelling politico è più semplice e più plausibile. I principali partiti di centro-sinistra in Europa non sembrano possedere uno storytelling di questo tipo. Una volta al governo – in genere – non si sono allontanati mai dai fondamentali del neoliberismo (pressione fiscale contenuta, in particolare sui redditi alti; tagli alla spesa pubblica; privatizzazioni; deregulation); d’altro canto, le narrazioni simboliche che offrono (per esempio: «apriamo le braccia a chi ha bisogno di accoglienza e viene da Paesi disagiati»), suonano decisamente controintuitive a tutte quelle persone che dispongono di redditi bassi, di livelli di istruzione modesti, di risorse cognitive non particolarmente articolate, le quali reagiscono dicendo: ma come? e perché non pensate a noi, prima che a tutti questi «altri»?
Ritorna l’idea di nazione come comunità biologica, che ci riporta ai giorni bui dell’Europa
Qui in gioco non c’è tanto il fondamento etico o sociologico di una reazione simile. Ma il fatto che questo tipo di reazione accomuna una grande quantità di persone (da chi abita a Torre Maura o Casal Bruciato, a chi abita nei quartieri depressi di Londra, o Manchester, o Birmingham). Queste stesse persone, che rifiutano lo storytelling dei partiti di centro-sinistra, trovano invece persuasivo lo storytelling offerto dai partiti populisti. I quali costruiscono una narrazione tutta giocata sulla logica delle differenze, sull’identificazione di un nemico, di un capro espiatorio su cui riversare frustrazioni e inquietudini.
La loro narrazione è semplice: «La colpa delle nostre sventure è della finanza internazionale (magari ebraica); delle caste politiche nazionali; dei tecnocrati dell’Unione Europea; la colpa è dei flussi migratori; o comunque dei migranti che costituiscono una minaccia alla nostra prosperità, perché sono portatori di culture e identità religiose del tutto estranee alle nostre; e dunque, recuperiamo la sovranità nazionale, e potremo fare politiche a sostegno del popolo; prima gli italiani; prima i francesi; difendiamo la cultura ungherese; difendiamo l’identità polacca; e facciamolo in ragione delle differenze etniche, religiose, culturali, che ci separano da questi nostri nemici».
Ecco: questo è lo storytelling dei movimenti populisti di destra. È semplice, facilmente comprensibile, e psicologicamente soddisfacente, anche quando non pone affatto le premesse per politiche realmente efficaci dal punto di vista economico e sociale. E in ragione della sua facile comprensibilità attrae strati deboli della popolazione. Ma è chiaro che è anche uno storytelling carico di implicazioni. La prima, e la più importante, è la ripresa di un dialogo con l’archivio memoriale del nazionalismo otto-novecentesco, anche nelle sue forme più estreme: ecco dunque riemergere l’idea che la nazione è una comunità biopolitica, che nasce da una storia che è culturale, ma anche biologica, di sangue, di stirpe; da questo assunto deriva che si deve difendere non solo la sovranità nazionale, ma la concezione della nazione come comunità fondata sullo ius sanguinis: si è italiani e italiane (o francesi, britannici, ungheresi, ecc.) non perché si può scegliere di esserlo, ma perché si nasce dentro la comunità nazionale: un’idea che ci riporta ai momenti più oscuri della storia europea otto-novecentesca.