Corriere della Sera, 30 maggio 2019
Intervista allo scrittore Manuel Vilas
L’intervista Il narratore spagnolo esploso con «In tutto c’è stata bellezza» (Guanda): una lettera d’amore per i genitori perduti
Il volume
«La verità nonostante tutto»
Manuel Vilas: viviamo tempi confusi, l’autobiografia è una forma di autenticità
di Alessia Rastelli
«Nei giorni migliori bevevo una bottiglia di whisky, mezza di vino, cinque o sei birre. Ho smesso nel 2014, altrimenti non sarei qui. L’uomo più importante della mia vita era mio padre e da quando è morto, oltre un decennio fa, la mia esistenza ha perso senso. Certo, negli ultimi tempi il successo del libro mi ha aiutato, però resto ancora aggrappato al passato. Era lo sguardo di mio padre su di me a dare significato a tutto». Manuel Vilas, scrittore spagnolo esploso nel suo Paese e a livello internazionale con il romanzo autobiografico In tutto c’è stata bellezza(tradotto in undici lingue, in italiano da Guanda), parla al «Corriere» in vista dell’arrivo a Roma, il 4 giugno, per il Festival Letterature alla Basilica di Massenzio.
Il titolo originale del libro, «Ordesa», è il nome della valle dei Pirenei alla quale suo padre «riservava un’autentica devozione». Scrivere è stato un tentativo di elaborare il lutto?
«Il testo nasce dalla gratitudine per mio padre e mia madre, scomparsa anche lei cinque anni fa. È una lettera d’amore ai miei genitori. Sono nato nel 1962 in una famiglia della classe media. Una famiglia normale, per me la migliore del mondo. Vincere la morte è impossibile, però oggi resta la bellezza: intendo l’enigma del passato, la sensazione di nostalgia per ciò che hai perso, per chi hai amato, una miscela di sentimenti molto potenti. Al momento di narrare la tua vita, sei solo. Però la letteratura ti permette di tornare indietro, di riagganciare quello che è stato».
A Massenzio parlerà della sua famiglia, della narrativa e del rapporto con i classici. Elementi che per lei si intrecciano.
«Un giorno ho capito che tutti i miei amici sono scrittori. Nel tempo solo un autore può capire un altro autore. È stato grazie a Kafka che ho iniziato anche io a scrivere: avevamo le stesse nevrosi. I suoi romanzi sono un’espansione incontrollata della vita, mi danno gioia. È l’autore più autentico del Ventesimo secolo: la sua letteratura è profondamente autobiografica, anche se non in modo esplicito».
Lei pure si confronta con un contenuto autobiografico.
«La mia idea è che la letteratura sia una rappresentazione intelligente ed espressiva della vita dello scrittore e del suo tempo. Ecco perché parlo di me, della mia famiglia, calati nella realtà sociale della Spagna dagli anni Sessanta a oggi. Ed ecco perché l’autobiografia mi è congeniale. Tuttavia il genere del mio libro è più complesso di quanto possa sembrare. Il contenuto è autobiografico ma si tratta comunque di un romanzo: racconta in prima persona fatti che mi sono accaduti, ma a farlo è un narratore che vampirizza la mia vita e la descrive come pare a lui».
Lo stile è cruciale: una scrittura frammentata, a tratti lirica. Quanto conta che lei sia anche un poeta?
«Decisivo è elaborare un linguaggio in grado di dire la verità. Forse il merito di questo romanzo è averlo trovato. È un libro figlio della memoria, e la memoria è frammentaria, è capricciosa».
Nel ritmo delle frasi c’è musica, ma anche negli appellativi che lei assegna ai suoi figli e ai suoi genitori (Vivaldi, Brahms, Bach, Wagner), nel finale in versi in cui confessa che Lou Reed l’ha aiutata con le sue canzoni.
«Anche le note sono bellezza: senza non saprei come vivere. Posso smettere di mangiare, ma non di ascoltare musica. La voce di Lou Reed è arrivata a ossessionarmi, perché entra dritta nel cuore».
L’anno scorso in un suo articolo per «El País», a proposito di recenti titoli spagnoli, pubblicati tra gli altri da Antonio Muñoz Molina e Marta Sanz, lei parlava di un nuovo «realismo intimo». Di che cosa si tratta? Anche «In tutto c’è stata bellezza» rientra in questa definizione?
«È una buona etichetta per il mio libro: racchiude l’elemento autobiografico, che è realistico, ma anche i sentimenti profondi dell’autore. Il mestiere dello scrittore si nutre di un rapporto continuo con la vita per metterla sulla pagina».
Da dove nasce questa voglia di realtà?
«Raccontarla così com’è si può nelle democrazie consolidate, dove all’autore è anche consentito narrarsi in prima persona senza conseguenze. Durante il franchismo questo tipo di autobiografia era impossibile e il romanzo di fiction in terza persona dava maggiori possibilità di celarsi».
Accade comunque non solo in Spagna – lo sottolinea tra gli altri Raffaele Donnarumma nel saggio «Ipermodernità» (il Mulino) – che dalla metà degli anni Novanta la narrativa inizi ad andare nella direzione delle storie vere e dell’espansione delle scritture dell’io.
«La letteratura è plurale e consente vari approcci. Anche il romanzo di fiction in terza persona può essere vero e arrivare ai lettori. Nonostante questo, oggi c’è bisogno di autenticità e si respira una certa stanchezza nei confronti della finzione».
Viviamo nell’era delle fake news e delle molteplici opinioni in rete. Dipende anche da questo?
«Certamente. Il lettore è immerso in un mondo illusorio, si sente confuso, dunque se apre un libro e trova uno scrittore che si è messo a nudo e dice “è successo a me”, questo assume una potenza incredibile. Ecco, nel rumore dell’oggi, forse c’è bisogno di questa maggiore potenza. Un buon esempio è il norvegese Karl Ove Knausgård: anche lui pratica l’autobiografia, cerca sempre la verità. E se la incontra, la racconta com’è, per quanto possa essere sgradevole, difficile, rischiosa. In questo siamo identici: drogati di verità».
Lei narra le molestie subite da bambino da parte di un prete. Che rapporto ha con la fede? Come valuta quanto sta facendo Papa Francesco sugli abusi nella Chiesa?
«Lo ripeto, davanti alla verità non ci si tira indietro per un malinteso pudore. Perciò racconto questa esperienza: non nutro rancore, ma ricordo. Quanto a Bergoglio, la cosa migliore che possa fare è annullare il celibato, dire ai preti e alle suore di fare l’amore quanto vogliono perché l’amore è vita. La repressione non ha a che fare con il cristianesimo. Gesù era anche sesso».
Nel romanzo non nasconde neppure lo smarrimento seguito al suo divorzio, l’alcolismo, le difficoltà economiche affrontate da lei e dai suoi genitori.
«Parlo della classe media costruita negli anni Sessanta, degli sforzi per portare avanti una famiglia, di sacrificio e lavoro. E poi di come quella stessa classe media sia stata indebolita dalla crisi del 2008. Demoralizzata, impaurita, può diventare preda di populismi e totalitarismi. Abbiamo dato tutto per scontato, pensavamo che i valori conquistati non potessero più essere persi. Non è così: la libertà bisogna dirla, raccontarla e difenderla ogni giorno».
Che cosa si può fare concretamente?
«Servono una destra civilizzata, con la quale si possa parlare, e una sinistra che si riarmi. Tutta la sinistra occidentale deve riformularsi: come per la letteratura, c’è bisogno di verità e di un discorso più potente. Va capita finalmente la complessità del capitalismo. Io ne sono ossessionato. Per questo ho scritto del rapporto genitori-figli: l’unico dove la compravendita non si è ancora insinuata».
La cultura può contribuire?
«È l’unica forma di lotta contro l’alienazione prodotta dal capitalismo. Per misurare il progresso di un Paese, bisogna valutare quanto la cultura sia diffusa per tutti. Sono stato un insegnante per oltre vent’anni: alla scuola spagnola serve maggiore impegno sociale».
Sta scrivendo un nuovo romanzo?
«Sì, avrà ancora un’impostazione autobiografica e sarà ambientato nel presente della Spagna. L’idea è continuare a dire la verità. La letteratura autentica si distingue dai bestseller commerciali perché porta avanti un impegno nei confronti del lettore: donargli conoscenza, non intrattenimento. Lo scrittore è utile anche alla politica se è animato da una coscienza e riesce a smascherare ogni genere di falsità».