il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2019
I selfie con la bara di Lauda
Questione di velocità, uno potrebbe azzardare, di tempi stretti, di modernità. E se l’argomento è Niki Lauda, l’azzardo non è neanche inappropriato.
Cattedrale di Vienna, già in assoluto il clima è austero, asburgico, protetto da un edificio monumentale, imponente, con una delle guglie più alte al mondo. Dentro c’è il funerale dell’ex ferrarista, eroe nazionale, mito assoluto, quindi giusta e prevedibile la folla, tutti in fila, nessuno spinge, nessuno supera, la compostezza nordica rispetta i suoi luoghi comuni.
Con un “però” enorme.
Quegli attimi davanti alla bara, quel (presunto) momento di condivisione, non serve più a rendere omaggio, ma a omaggiarsi, a concretizzare la propria presenza, a certificare l’impresa, la scalata verso le emozioni, a gratificare il sotto “io” attraverso un benedetto selfie, o uno scatto. Tutti armati di cellulare, solo la minoranza si concede e concede il segno della croce, la maggioranza estrae e click, ancora click, perennemente click, tanto da alterare la compostezza precedente, c’è chi allunga il braccio per guadagnare frazioni di secondo (non si sa mai, magari il feretro scappa); chi cammina all’incontrario mentre è costretto a lasciare il passo. A ognuno un pezzetto di protagonismo, non importa il prezzo, non importa il rispetto, il luogo, il contesto o il messaggio, conta solo il trofeo.
Vinicio Capossela spiega in un’intervista: “Siamo come dei bambini senza alcuna educazione, non abbiamo ancora nessun codice di comportamento rispetto a certe scene. Dobbiamo imparare e darci delle regole”. Perché episodi del genere sono ripetuti, non degli unicum, come il turismo macabro davanti alla tragedia della Costa Concordia, affacciati al traghetto per una visuale migliore; o quegli imbecilli che il 6 agosto dello scorso anno, quando un’autocisterna stava per esplodere dopo un tamponamento sulla tangenziale di Bologna, si preoccupavano solo di immortalare con il cellulare, non di salvare la vita degli altri e la propria. O ancora quella massa di incoscienti che ogni anno muoiono per il selfie più audace o impossibile; non sono casi isolati, ma sono diventati un caso da studiare sul piano sociale, civile, antropologico e psicologico, si chiamano “selficidi”, e il numero è superiore ai 200 l’anno.
Il punto è sempre lo stesso: non conta la comunità, non basta sentire l’abbraccio della collettività, è più importante il riflesso di noi stessi, l’onanismo mentale. Così appare lontano, e non solo per questioni di date, il 9 giugno del 1984, uno dei momenti di maggiore solidarietà nazionale, quando le lacrime non avevano colore politico, ma solo il segno del rispetto e del dolore per la morte di Enrico Berlinguer; nelle scene strazianti del funerale, la persone in fila (anche lì disciplinate nonostante l’anima latina), non si preoccupavano di fotografare il feretro, ma solo di non piangere troppo per mantenere rispetto e dignità; rispetto e forza per il prossimo. E l’unico, tenero imbarazzo era rappresentato dal segno della croce, se fosse giusto o meno davanti a un leader laico e comunista.
Allora c’era una visione comune, o almeno ci si illudeva, oggi solo dei Dorian Gray.