il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2019
Sondaggi, Putin affonda
Non ci sono più le lacrime e le bandiere di un anno fa, quando Putin è stato rieletto con il 77 per cento delle preferenze. Per le strade di Mosca, sotto un imprevisto sole rovente, c’è solo la valanga di sondaggi e statistiche resi pubblici negli ultimi giorni nella Capitale.
In arretramento temporaneo. Che il rating della fiducia riposta nel presidente sia crollato ai minimi storici al 31 per cento lo dice l’istituto sondaggi governativo Vtsiom. Preferenze che puniscono anche il ministro della Difesa Shoigu al 14 per cento e il ministro degli Esteri Lavrov, che toppa al 13. “I russi non credono che la vita domani sarà migliore di quella di oggi” ha detto Valery Fyodorov, capo del Vtsiom: “La Russia si vede come una nuova edizione dell’Urss: non di Stalin o Gorbaciov, ma Breznev”. I redditi russi calano per il sesto anno consecutivo, ha detto ieri la Ranepa, accademia d’economia nazionale russa. Accade nonostante il piano governativo – pari per ambizione solo a quello sovietico – per alzare lo standard di vita con 390 miliardi di dollari in investimenti. Aleksey Kudrin, revisore della spesa putiniana, non ha contraddetto gli economisti del colosso mediatico Rbc che ha diffuso la notizia. Insieme a un’altra: i risultati di un’indagine statale interna, condotta ad aprile, secondo cui, in alcune regioni meno della metà dei russi voterebbe ancora per Putin oggi.
Non è ancora la primavera dello scontento russo, ma c’è chi tenta di presagire da queste informazioni scosse telluriche sotterranee. Chiede al bar un succo di frutta e anonimato sul suo nome. “Non credo nei sondaggi, ma penso che se alcune forze politiche non si stessero muovendo, questi sondaggi non sarebbero pubblici”, dice un membro del Centro di ricerca storica nel quartiere Kitay Gorod. Al centro indipendente Levada sono stati impegnati con un altro sondaggio: chi ci sarà dopo Putin? Più che cifre e numeri, importa che certe domande si facciano ad alta voce. Ksenia, che lavora in una delle decine di agenzie di Mosca dove giornalismo, propaganda e pubblicità non hanno confini – se mai ne hanno avuti qui –, passeggiando ad Ochotny riad, a metà tra un sorriso rassegnato e uno sbadiglio, dice: “Elementare. Già sappiamo chi ci sarà dopo Putin. Un altro Putin”.
La variabile non prevista in arrivo dagli Urali. Una protesta dei cittadini di Ekaterinburg, quarta città russa, ha bloccato pochi giorni fa la costruzione di una megacattedrale ortodossa, aprendo uno squarcio nella finora pressoché inesistente capacità di rivolta contro il Cremlino. I russi sono scesi in strada per proteggere la zelennaya zona, zona verde del parco, e dopo giorni di manifestazioni, Putin ha inaspettatamente concesso un referendum dove è stato scelto in massa il niet alla chiesa.
Ora il Rozkomnadzor, organo di controllo mass media, ha ordinato al canale e1.ru di eliminare tutti i video delle manifestazioni per la slavina digitale di commenti che “istigano ad attività estremista”. Cioè di protesta. Gli Urali non hanno fermato solo la costruzione di una chiesa ma un diktat di Mosca. Non ancora trainante, ma già rilevante per la rarità della vicenda. La contestazione si è dissolta ma la cicatrice al potere è rimasta. Una frattura che ora vedono anche il resto dei russi. A Mosca lo fanno quelli in basso, in strada e quelli in alto, che dirigono l’orchestra del Paese più esteso del mondo, e forse entrambi hanno imparato una lezione.