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 2019  maggio 30 Giovedì calendario

Intervista a Laurie Anderson

Laurie Anderson ha imparato a volare. Ha raggiunto le stelle, le ha toccate con le mani. E poi è atterrata sulla Luna, attraversandola a dorso d’asino. A settantuno anni, da compiere il 5 giugno, l’artista, musicista e vedova del rocker Lou Reed (ma lei preferisce dire partner: «Il termine vedova non mi definisce, come non ci definivano quelli di marito e moglie») ha presentato allo scorso Festival di Cannes, nella sezione Quinzaine, tre opere visionarie in realtà virtuale, allestite all’interno di un ex obitorio trasformato in galleria galattica, e dedicate a tre delle sue passioni: lo spazio (To the Moon), la musica (Chalkroom) e la spiritualità buddista (Aloft). Realizzati insieme all’artista taiwanese Hsin-Chien Huang, i piccoli, psichedelici film sono capaci di produrre nello spettatore impressioni vividissime, come l’illusione di volare o quella di galleggiare a gravità zero: «Ogni volta che li provi hai un’esperienza sempre diversa – ha spiegato l’artista, che dopo dodici album, 40 anni di carriera e una hit nel 1981, O Superman, ha trovato nel cinema nuova giovinezza artistica – Bisogna lasciarsi andare, senza cercare per forza una logica. La vita stessa non ha una trama. Basta poco perché tutto cambi all’improvviso».
Come definirebbe questi suoi lavori?
«Una sinfonia di parole, tecnologia e musica. Uno stato mentale. Un’esperienza molto stancante, che può generare diffidenza».
Il cinema ha paura dello streaming, figuriamoci della realtà virtuale.
«Alla Mostra di Venezia la realtà virtuale l’hanno messa nell’ex lazzaretto. A Cannes ci hanno offerto l’obitorio. Mi sembra chiaro che siamo le pecore nere del cinema».
La realtà virtuale è arte?
«È arte. È politica. Ma anche terapia. Le racconto una storia: un mio assistente, che ha una mano parzialmente paralizzata, un giorno ha provato Aloft. Si è messo il visore, ha guardato le sue mani nello spazio virtuale, e per la prima volta in due anni l’ho visto stendere le dita. Sono scoppiata a piangere, non sapevo spiegarmi cosa stesse succedendo. La verità è che non sappiamo nulla sul collegamento tra mente e corpo. Su come parlino tra loro. Sull’importanza dei sogni, delle visioni. È stato incredibile».
Sta dicendo che la realtà virtuale l’ha guarito?
«No, finita l’esperienza tutto è tornato come prima. La mano è ancora paralizzata. Però l’esperimento ha dimostrato che perdere il proprio corpo può produrre effetti inimmaginabili». 
Perché la realtà virtuale sarebbe anche politica?
«Tutta l’arte è politica. Creare una performance alla quale può assistere solo una persona alla volta è un atto politico. È cambiare il mondo a partire dal singolo. Ma parlo come una vecchia hippie degli anni Sessanta, lo so».
Gli hippie avrebbero manifestato contro Trump. Si sarebbero schierati con Greta Thunberg.
«Non ignoro i problemi del mondo, ma sono un’ottimista e cerco di non lasciarmi avvilire dalla loro gravità. Mi sforzo di contribuire a fare del mondo un posto più bello attraverso la mia arte. Ecco: Lou probabilmente avrebbe avuto qualcosa da dire, su Trump».
Con lui, nel 2010, ha organizzato un concerto per cani all’Opera di Sydney. Perché?
«I cani sono fatti per la musica. Io e Lou abbiamo avuto una cagnolina capace di suonare il piano. Era diventata cieca e non si muoveva più, così un giorno ho chiamato un addestratore, noto per aver insegnato ai suoi animali a suonare. Disse che ci avrebbe aiutato. Comprammo alla cagnolina delle piccole tastiere e la lasciammo esercitare un’ora al giorno. Faceva dei veri concerti, le persone venivano ad ascoltarla. Era felice. Aveva accettato la sua condizione. Succede anche a tanti musicisti: quando sono disperati, solo la musica li può riportare in vita. Quando il nostro cane è morto ho girato un film su questa bellissima esperienza». 

È stata la prima, e unica, artista ospitata alla Nasa. Che esperienza è stata?
«La prima e l’ultima, perché poi il governo ha smesso di finanziare l’esperimento. È stato molto interessante. Ho parlato con persone che si occupano di robotica, ho visto i loro incredibili disegni. Gli scienziati hanno un’immaginazione molto potente, per questo non vedo grandi differenze tra scienza e arte. Lo stesso Einstein, nelle sue teorie, cercava la bellezza della simmetria».
Viviamo in un mondo ipertecnologico: non si sente oppressa?
«Sono un’appassionata di tecnologia fin da piccola, sono una cosiddetta geek. Ma chi pensa che la tecnologia serva a risolvere i problemi, o non sa cosa sia la tecnologia o non sa cosa siano i problemi. Non sono così naive da non rendermi conto che la filosofia capitalista, oggi, è quella della Silicon Valley: non accumulare cose, ma rinnovarle continuamente. Facendoci un mucchio di soldi».