La Stampa, 30 maggio 2019
La fine dell’uomo di Neanderthal
Siamo talmente autoreferenziali, noi sapiens, che ci consideriamo il fine ultimo dell’evoluzione biologica della vita sulla Terra, come se tutto il complesso dei viventi avesse sempre teso a generare un essere finale praticamente perfetto, senza nulla dovere agli altri. In questa visione trovano poco spazio anche i nostri cugini strettissimi, quasi fratelli, che chiamiamo Neanderthal e che hanno vissuto con noi sapiens per decine di migliaia di anni, salvo sparire quasi di colpo tra 41.000 e 39.000 anni fa. Che fine hanno fatto?
Di ipotesi se ne sono fatte tante, da una presunta migliore capacità di adattamento a climi più freddi dei sapiens, alla peggiore inclinazione alla socialità o all’uso di strumenti da parte dei Neanderthal, alla proverbiale micidiale aggressività di noi Cro-Magnon. Ma nessuna era così convincente da far convergere i ricercatori e, anzi, alcune caratteristiche lasciavano dubbi: come mai si estingue un essere dotato di un cervello così grande, come quello neanderthaliano, che arrivava a 1520 c.c., cioè più grande di quello dei sapiens (circa 1450 c.c.)? Oggi, però, una nuova scoperta del CNR-ISMAR (condotta insieme con l’Università di Florida) getta una luce nuova e, apparentemente definitiva, sulla questione confrontando dati genetici e geofisici.
Tutto nasce dall’evento di Laschamp, una delle principali variazioni del campo magnetico della Terra. Come è noto, la Terra si comporta come un gigantesco magnete, con un polo sud magnetico e uno nord. Questi poli, come testimoniano anche per il periodo attuale nuovi dati, si sono scambiati di posto più volte nel corso della storia geologica. E, fatto quasi magico, queste variazioni restano impresse per sempre nelle rocce della crosta terrestre. Durante queste escursioni il campo geomagnetico si indebolisce significativamente e così viene meno la protezione che esso stesso fornisce contro le radiazioni ultraviolette provenienti dal cosmo (lo stesso ozono stratosferico si depaupera paurosamente in questi intervalli), radiazioni che, come sappiamo, possono essere addirittura letali in determinate condizioni.
Indagando le rocce, Luigi Vigliotti, uno dei paleomagnetisti italiani di più lunga milizia, e Jim Channell, uno dei decani mondiali della disciplina, hanno individuato una grande escursione del campo circa 40.000 anni fa, cioè proprio in corrispondenza dell’estinzione dei Neanderthal. Ma perché l’escursione del campo geomagnetico è stata così esiziale per i nostri cugini e non per i sapiens, esposti allo stesso identico rischio? Sarebbe stata una variante genetica di una proteina nota come recettore arilico (AhR), sensibile alle radiazioni UV, a essere fatale durante quel breve intervallo di tempo (circa 2000 anni) di minima intensità del campo magnetico. Gli studi di biologia molecolare (2016) hanno testimoniato l’esistenza di una piccola variante genetica (Ala-381) nel recettore arilico dei Neanderthal rispetto al Val-381 dei Cro-Magnon, che inizialmente fu interpretata come un vantaggio nell’assorbimento delle tossine prodotte dal fumo legato allo stile di vita trogloditico. È molto probabile che, invece, possa essere stato lo stress ossidativo prodotto dalla mancanza dello schermo fornito dal campo magnetico terrestre ad essere responsabile della scomparsa dei nostri cugini.
Ma c’è anche di più: l’attenuazione dello schermo magnetico della Terra durante le escursioni del campo avrebbe causato (o, meglio, concausato) l’estinzione di grandi mammiferi. Quarantamila anni fa in Australia si estinsero 14 generi di mammiferi di grossa taglia, come dimostra la drastica diminuzione, nei sedimenti, delle tracce di un fungo coprofilo che vive sullo sterco dei grandi erbivori. Mentre circa 13 mila anni fa, in corrispondenza di un altro minimo del campo, scomparvero 35 generi di grandi mammiferi in Europa e in Nord America. Secondo i ricercatori l’effetto generato dall’escursione del campo magnetico terrestre avrebbe maggiori responsabilità rispetto alla caccia sistematica e distruttiva dei sapiens, lasciando intravedere la possibilità che possa aver giocato un ruolo chiave nell’evoluzione della vita sulla Terra.
Su questi ultimi aspetti ci sarà ancora da lavorare, ma i dati appena pubblicati su Reviews of Geophysics (è sempre bene ricordare che la ricerca scientifica si fa sulle riviste scientifiche, non sui giornali, pena la proliferazione incontrollata di bufale), sono il nuovo benchmark da cui partire. Come sapiens, un po’ di nostalgia per i nostri cugini scomparsi la dovremmo sentire: abbiamo convissuto per migliaia di anni, nella maggior parte dei casi pacificamente e, anzi, ci siamo addirittura mescolati, tanto che una percentuale di DNA dei Neanderthal fa parte stabile del nostro patrimonio genetico. Ma, non bastassero le escursioni del campo, una specie prepotente e opportunista come la nostra non si era ancora mai vista sul pianeta: guai a chi non aveva geni adatti.