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 2019  maggio 30 Giovedì calendario

Disattento e iperattivo: la sindrome di Leonardo

Iperattività. Deficit di attenzione. I genitori, un po’ allarmati, che sentono risuonare questi termini nello studio medico in cui hanno accompagnato bambini supervivaci e incapaci di concentrazione potrebbero considerarli con minore (o nessuna) apprensione. Si tratta dei sintomi principali della cosiddetta sindrome di deficit di attenzione e iperattività Adhd, che pare affliggesse - nientemeno - persino un genio come Leonardo da Vinci. A sostenerlo, sulla base di biografie, memorie, e innumerevoli testimonianze dei contemporanei, due studiosi - Marco Catani del King’s College di Londra e Paolo Mazzarello dell’Università di Pavia - che formulano la loro diagnosi in un saggio ricco di suggestioni, pubblicato sulla più prestigiosa rivista di neurologia, Brain. 
La leggendaria attitudine di Leonardo a procrastinare, a mettere mano contemporaneamente a diverse opere, senza portarle a compimento, con grande dispetto dei committenti, potrebbe offrire la chiave - sostengono gli autori - per entrare nella grande mente dello scienziato, dell’inventore, dell’artista anatomico, il più grande del Rinascimento. Interessato, fino all’ultimo giorno della sua vita, a studiare quella macchina perfetta che è il corpo umano per comprenderne gli «ingranaggi» e cosa conteneva la «scatola nera» che era stato il corpo per tutto il Medioevo: come funzionava e cosa succedeva quando si fermava definitivamente con la morte.
La dettagliata e minuziosissima ricognizione dei due autori si muove dalla Roma papale alla Milano di Ludovico il Moro, ammirato dal fuoco d’artificio di idee e progetti di Leonardo, ma poco speranzoso, data la fama di scarsa costanza, che portasse avanti la costruzione della statua di bronzo di suo padre. Leone X notava, spazientito, che non avrebbe concluso nulla perché pensava alla fine del lavoro ancora prima ancora di metterci mano.
A dare ancora corpo alla «diagnosi retrospettiva» di Adhd l’insospettabile testimonianza dell’umanista e diplomatico Matteo Bardello, che ebbe modo di vedere con i suoi occhi come lavorava Leonardo, intento a dipingere l’Ultima cena. «Soleva […] andar la mattina a buon’ora a montar sul ponte, perché il cenacolo è alquanto da terra alto; soleva, dico, dal nascente sole sino a l’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano ….. L’ho anco veduto secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava, partirsi da mezzo giorno, quando il sole è in lione, da Corte vecchia ove quel stupendo cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Grazie ed asceso sul ponte pigliar il pennello ed una o due pennellate dar ad una di quelle figure, e di solito partirsi e andar altrove». Gli ci vollero sedici anni per concludere La Gioconda, tre per l’Ultima cena, un ritardo giustificato con le difficoltà di trovare modelli adatti per Giuda e per Gesù. 
Si potrebbe ricondurre a quella sindrome l’eccezionale creatività di Leonardo nel campo della scienza, dell’arte, dell’architettura? O non è invece fiorita nonostante quella sindrome, la cui prima descrizione conosciuta, nel 1775, è attribuita al medico e filosofo tedesco Melchior Adam Weikard? Per il professor Mazzarello, questo disturbo non spiega ovviamente il genio di Leonardo, un unicum nella storia umana, ma la sua particolare forma, il carattere vagabondo, l’insaziabile peregrinare della sua mente da un campo all’altro, senza che in genere riuscisse a giungere in porto, se non sotto la costrizione dei suoi committenti . Alla luce di questa riflessione, risaltano parole attribuite da Giorgio Vasari a Leonardo, che in punto di morte si sarebbe lamentato di «aver offeso Dio e l’umanità» non avendo lavorato alla sua arte come avrebbe dovuto fare».